Difficile è il
mestiere dei titolisti. Invogliare a leggere un pezzo, rispettandone il
contenuto, implica un lavoro di sintesi e di creatività che non sempre riesce.
Me ne rendo conto su me stessa ogni volta che metto un titolo ad un post del
blog.
Ma mi voglio
riferire, qui, ai professionisti: a quelli che porgono o, magari, sbattono in
faccia, le notizie sui giornali.
Non ho idea di come
vengano scelti. Non so se sono sottoposti a prove e riprove di riassunto: da
100 righe farne 50, poi da 50 10, poi da 10 due, poi da 2 righe tre, quattro
parole: sempre mantenendo il punto centrale delle prime 100 righe. Magari, alla
fine, avremmo titoli più corretti o meno scorretti: che
rispettino almeno quello che nell’articolo sta scritto.
Prendiamo il Mattino
di oggi. C’è un’intervista ad una ex ragazza di Nisida, la quale parla della
sua esperienza, positiva, in Istituto, e del fatto che, anche se ancora non l’ha
ripreso per via della ripartenza cauta del settore dopo la chiusura per
epidemia, ha un lavoro con contratto: un cammino sicuro di ricostruzione della
propria vita, favorito anche dalla sensibile attenzione del suo titolare. Si
rammarica, la ragazza, del fatto che alcuni suoi compagni, usciti da Nisida e
desiderosi di farsi una vita all’insegna della legalità, hanno trovato lavoro
solo a nero e, adesso, perdendo il lavoro, potrebbero rientrare in percorsi
meno positivi per loro stessi e per la società.
Un discorso pieno di
speranza e di sensate riflessioni, che il titolo ribalta. Perché tanta banale
superficialità nell’uso delle parole? Non dovrebbero i giornalisti, titolisti
compresi, tener presente sempre quanto le parole possono pesare?
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