sabato 23 maggio 2020

Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano





«A Reggio scoppiò la rivolta. Io sono dimostrante e voglio dimostrare che Reggio, non Catanzaro, fu sempre e sempre sarà la città principale delle Calabbrie. Tornai ora ora per la casa dopo una giornata sana che ci spasciamo a legnate con gli sbirri, che loro ci tirano le candele lagrimoggene e noi pietrate. Habbiamo messo barricate per ogni località cittadina cioè Pineta Zerbi, centro, torrente Calopinace e pura­mente argine torrente Annunziata lato Santa Caterina. Un burdello indescrivibbile, una guerra incivile, massimamente sul Calopinace al ponte San Pietro, e più sotto verso il mare pesqoso del rione pesqatori e la ferrovia del rione ferrovieri.»

È il 14 luglio del 1970 quando Nunzio, tredicenne di vivace intelligenza ma di scarse competenze scolastiche non solo grammaticali (non per nulla è stato rimandato in tre materie a settembre) scrive al suo amico-compare-fratello Luciano, in vacanza con la famiglia a Lazzaro. Quella che doveva essere una punizione per la mancata promozione – rimanere in città senza fare i bagni nel mare dello Jonio – sembra aprirsi ad un’avventura inattesa: sentirsi protagonista di una rivolta che segnerà la storia della città, ovvero, nel suo immaginario, la storia del mondo. Potersi misurare, quasi come un paladino, con quel senso dell’onore in cui si mescolano e si concentrano il mito del padre, la voglia di crescere, il bisogno di trovare una propria strada, l’identità/sicurezza non scevra di qualche disagio poggiata su una complessa rete di relazioni familiari.

Come e perché una città che fino a quel momento se ne stava tranquilla «sdraiata come un bagnante, con la schiena sollevata dal pendio del primo Aspromonte, le braccia allargate a nord e a sud dove, paralleli alla sua spina dorsale, si stendevano i letti aridi dei torrenti Annunziata e Calopinace», nell’anno «delle proteste operaie, delle bombe, dell’agitazione socialcomunista», dà vita ad una rivolta «per avere un cerchietto più grande sulla carta geografica» e che dopo mesi di barricate, morti, scuole e negozi chiusi, si concluderà, il 23 febbraio 1971, con lo sferragliare nelle proprie strade – unico caso nella nostra storia repubblicana – dei carri armati?

Non è mancata in questi anni una memorialistica e una saggistica sui Moti di Reggio (in parte interessante, in parte schematica e ideologica) e neppure una narrativa, sebbene, quest’ultima, mai davvero in grado di cogliere la complessa articolazione di un unicum nella nostra storia, che si presterebbe anche a fiction, film, fumetti e altre rielaborazioni artistiche.

È una fortuna che a cinquanta anni dal Boia chi molla arrivi Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano, edito da Giunti: finalmente non “un”, ma “il” romanzo su quegli eventi. Non, naturalmente, perché non ne potranno venire altri di pregio, ma perché – ripeto: finalmente – abbiamo una storia articolata, complessa, coinvolgente, con una visione degli eventi ben precisa (e ben espressa nella postfazione e, naturalmente, discutibile), ma che, nel racconto, non si fa ideologia: e resta narrazione. Che inchioda alla lettura finché non si finiscono le quattrocento e passa pagine del libro.

Con l’autore che scompone la sua voce in cinque: la propria, di “narratore onnisciente”; quella delle lettere di Nunzio e del coetaneo Luciano, alle prese con il suo primo, serio innamoramento; quella del diario e delle lettere di Rosalba, madre di Luciano e degli appunti e delle lettere di Giovanni, celerino, iscritto a Giurisprudenza, inviato dal Nord, dove si è trasferito, nella sua terra d’origine a sedare la rivolta. 

Il doppio romanzo di formazione dei due tredicenni volge, nel corso del racconto, ai toni di un giallo dai torbidi risvolti familiari per i contorti intrecci tra i genitori di Nunzio, Amedeo e Giuseppina e quelli di Luciano, Rocco-Gianpaolo e Rosalba e la vicenda nel suo complesso prende il ritmo di un thriller politico-sociale che scava nel magma che ha in Reggio il suo punto di eruzione ma scorre sotterraneo anche molto lontano.

La sincera, viscerale insofferenza di tutti gli strati della popolazione al trasferimento a Catanzaro del capoluogo, che tutta Italia aveva appreso alle elementari essere Reggio, che produce una sorta di Vandea; il movimentismo eversivo della destra, che ne vuole fare la prova generale di un golpe nazionale e, quello, molto meno importante, dell’estremismo di sinistra che ne prefigura lo slancio rivoluzionario; le utopie anarcheggianti; l’equilibrismo della chiesa; gli interessi politico-economici della massoneria; i giochi della Dc e del Partito socialista e la difficoltà del Pci, stretto tra la difesa dello Stato e la sprezzatura della ribellione come neofascista ben prima che ne avesse tal guida; i rapporti sempre più stretti tra la borghesia e la ‘ndrangheta.

Salutiamo, amico privilegia il crescente potere delle ‘ndrine che, pressoché assenti, fino a quel momento in città, con la rivolta costruiscono consenso e costituiscono una prima, forte «accumulazione capitalistica mafiosa», ma restituisce l’intrigo multiforme dei Moti del Boia chi molla, con una narrazione capace di darne luce e unitarietà. Una narrazione veloce e distesa che, mentre approfondisce, senza appesantire, ogni aspetto della rivolta, disegna una galleria di personaggi ben poco raccomandabili e di deboli senza via d’uscita, senza trascurare la dignità di uomini che si dedicano con passione a lavori antichi come il vasaio e il pescatore e quella di donne che si riprendono il diritto ad esistere come soggetti autonomi. E dà spazio ai colori e agli odori della città, delle sue colline, del suo mare; al sapore dei suoi cibi cucinati da mani amorose; alla musicalità del suo dialetto, che, come per altri dialetti italiani, avrebbe dignità di lingua. 

Il libro di Turano dà risposte e innesca nuove domande: lasciando al lettore il piacere di rimescolare le carte, cercando vie d’uscita ai macigni che quell’evento continua a far pesare sulla città.


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