«A Reggio scoppiò la
rivolta. Io sono dimostrante e voglio dimostrare che Reggio, non Catanzaro, fu
sempre e sempre sarà la città principale delle Calabbrie. Tornai ora ora per la
casa dopo una giornata sana che ci spasciamo a legnate con gli sbirri, che loro
ci tirano le candele lagrimoggene e noi pietrate. Habbiamo messo barricate per
ogni località cittadina cioè Pineta Zerbi, centro, torrente Calopinace e puramente
argine torrente Annunziata lato Santa Caterina. Un burdello indescrivibbile,
una guerra incivile, massimamente sul Calopinace al ponte San Pietro, e più
sotto verso il mare pesqoso del rione pesqatori e la ferrovia del rione
ferrovieri.»
È il 14 luglio del 1970
quando Nunzio, tredicenne di vivace intelligenza ma di scarse competenze
scolastiche non solo grammaticali (non per nulla è stato rimandato in tre
materie a settembre) scrive al suo amico-compare-fratello
Luciano, in vacanza con la famiglia a Lazzaro. Quella che doveva essere una
punizione per la mancata promozione – rimanere in città senza fare i bagni nel
mare dello Jonio – sembra aprirsi ad un’avventura inattesa: sentirsi
protagonista di una rivolta che segnerà la storia della città, ovvero, nel suo
immaginario, la storia del mondo. Potersi misurare, quasi come un paladino, con
quel senso dell’onore in cui si mescolano e si concentrano il mito del padre,
la voglia di crescere, il bisogno di trovare una propria strada,
l’identità/sicurezza non scevra di qualche disagio poggiata su una complessa
rete di relazioni familiari.
Come e perché una città che
fino a quel momento se ne stava tranquilla «sdraiata come un bagnante, con la
schiena sollevata dal pendio del primo Aspromonte, le braccia allargate a nord
e a sud dove, paralleli alla sua spina dorsale, si stendevano i letti aridi dei
torrenti Annunziata e Calopinace», nell’anno «delle proteste operaie, delle
bombe, dell’agitazione socialcomunista», dà vita ad una rivolta «per avere un
cerchietto più grande sulla carta geografica» e che dopo mesi di barricate,
morti, scuole e negozi chiusi, si concluderà, il 23 febbraio 1971, con lo
sferragliare nelle proprie strade – unico caso nella nostra storia repubblicana
– dei carri armati?
Non è mancata in questi
anni una memorialistica e una saggistica sui Moti di Reggio (in parte
interessante, in parte schematica e ideologica) e neppure una narrativa,
sebbene, quest’ultima, mai davvero in grado di cogliere la complessa
articolazione di un unicum nella nostra storia, che si presterebbe anche a
fiction, film, fumetti e altre rielaborazioni artistiche.
È una fortuna che a
cinquanta anni dal Boia chi molla
arrivi Salutiamo, amico di Gianfrancesco
Turano, edito da Giunti: finalmente non “un”, ma “il” romanzo su quegli eventi.
Non, naturalmente, perché non ne potranno venire altri di pregio, ma perché –
ripeto: finalmente – abbiamo una storia articolata, complessa, coinvolgente,
con una visione degli eventi ben precisa (e ben espressa nella postfazione e,
naturalmente, discutibile), ma che, nel racconto, non si fa ideologia: e resta
narrazione. Che inchioda alla lettura finché non si finiscono le quattrocento e
passa pagine del libro.
Con l’autore che scompone
la sua voce in cinque: la propria, di “narratore onnisciente”; quella delle
lettere di Nunzio e del coetaneo Luciano, alle prese con il suo primo, serio
innamoramento; quella del diario e delle lettere di Rosalba, madre di Luciano e
degli appunti e delle lettere di Giovanni, celerino, iscritto a Giurisprudenza,
inviato dal Nord, dove si è trasferito, nella sua terra d’origine a sedare la
rivolta.
Il doppio romanzo di
formazione dei due tredicenni volge, nel corso del racconto, ai toni di un
giallo dai torbidi risvolti familiari per i contorti intrecci tra i genitori di
Nunzio, Amedeo e Giuseppina e quelli di Luciano, Rocco-Gianpaolo e Rosalba e la
vicenda nel suo complesso prende il ritmo di un thriller politico-sociale che
scava nel magma che ha in Reggio il suo punto di eruzione ma scorre sotterraneo
anche molto lontano.
La sincera, viscerale insofferenza
di tutti gli strati della popolazione al trasferimento a Catanzaro del
capoluogo, che tutta Italia aveva appreso alle elementari essere Reggio, che
produce una sorta di Vandea; il movimentismo eversivo della destra, che ne
vuole fare la prova generale di un golpe nazionale e, quello, molto meno
importante, dell’estremismo di sinistra che ne prefigura lo slancio
rivoluzionario; le utopie anarcheggianti; l’equilibrismo della chiesa; gli
interessi politico-economici della massoneria; i giochi della Dc e del Partito
socialista e la difficoltà del Pci, stretto tra la difesa dello Stato e la
sprezzatura della ribellione come neofascista ben prima che ne avesse tal guida;
i rapporti sempre più stretti tra la borghesia e la ‘ndrangheta.
Salutiamo,
amico privilegia il crescente potere delle ‘ndrine che,
pressoché assenti, fino a quel momento in città, con la rivolta costruiscono
consenso e costituiscono una prima, forte «accumulazione capitalistica mafiosa»,
ma restituisce l’intrigo multiforme dei Moti del Boia chi molla, con una narrazione capace di darne luce e
unitarietà. Una narrazione veloce e distesa che, mentre approfondisce, senza
appesantire, ogni aspetto della rivolta, disegna una galleria di personaggi ben
poco raccomandabili e di deboli senza via d’uscita, senza trascurare la dignità
di uomini che si dedicano con passione a lavori antichi come il vasaio e il
pescatore e quella di donne che si riprendono il diritto ad esistere come
soggetti autonomi. E dà spazio ai colori e agli odori della città, delle sue
colline, del suo mare; al sapore dei suoi cibi cucinati da mani amorose; alla
musicalità del suo dialetto, che, come per altri dialetti italiani, avrebbe
dignità di lingua.
Il libro di Turano dà
risposte e innesca nuove domande: lasciando al lettore il piacere di
rimescolare le carte, cercando vie d’uscita ai macigni che quell’evento
continua a far pesare sulla città.
Pubblicata su Zoomsud: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/107508-le-recensioni-di-maria-franco-salutiamo-amico-di-gianfrancesco-turano-giunti
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