La breve scalinata che
dal parcheggio conduceva alla palazzina sembrava allontanare dalla strada
principale ben oltre la realtà. Il silenzio accentuava la sensazione di non
essere più in città. Un gatto bianco e nero, che stava accoccolato sui primi
gradini, li guardò e non si mosse. Una signora in pigiama e ciabatte lo chiamò:
Micio, ma il gatto rimase fermo, come dicesse: Questa è terra mia. Più in alto,
c’erano altri gatti.
«Che
bello vedervi. Siete i primi, speriamo che gli altri non facciano tardi. Ma
l’importante è che, alla fine, ci siamo riusciti».
Le maniche della camicia azzurrina arrotolate, Giorgio accolse Anna e Antonio
con un sorriso. Erano occorsi quattro mesi e numerosi rinvii perché si
realizzasse quell’invito a cena.
L’appartamento era molto
più bello di quanto Anna avesse immaginato. Dal portone d’ingresso, si passava
direttamente in un’ampia sala con divani dai colori tenui, mobili antichi e, in
un angolo, un tavolo tondo apparecchiato con accuratezza. Le pareti erano
completamente tappezzate da quadri e i mobili pieni di ninnoli, eppure non si
avvertiva nessuna pesantezza, piuttosto un senso di pacatezza, di equilibrio. Che
da qualche parte della casa, ci dovesse stare la moglie di Giorgio, gravemente
malata da anni, lo diceva un certo ristagno di odore ospedaliero e qualche
rapido passaggio, in corridoio, di una badante. Dal balcone si vedeva il golfo,
placido e illuminato. Anna osservò la luna, appena velata nel cielo sgombro di
nuvole, e respirò profondamente.
Giorgio e Antonio erano
stati colleghi di lavoro e avevano molto da raccontarsi. Anna interveniva poco,
ma sorrideva molto. Quell’uomo così a modo, le faceva molta simpatia.
Quando arrivarono gli
altri, s’era già fatto tardi: «Prendete gli stuzzichini e
accomodatevi. Pochi minuti ed è pronto.»
Giorgio sparì in cucina. Antonio,
Alfredo e Aurelio, anch’essi compagni di lavoro (tutti e quattro, Giorgio
compreso erano ormai in pensione) avevano fatto gruppo e chiacchieravano del
più e del meno. Irma, compagna di Alfredo da pochi mesi e Jolanda, compagna di
Aurelio da qualche anno, parlottavano fitto tra di loro. Anna teneva le orecchie
alla cucina e, quando capì che il trafficare tra i fornelli di Giorgio era
arrivato ad un compimento, si offrì di dare una mano a servire.
La cena fu ottima: primo,
secondo con quattro contorni, frutta, gelato; la conversazione superficiale,
appena movimentata da qualche frecciata di gelosia tra Jolanda e Aurelio e da
qualche ironia di Alfredo.
Antonio sarebbe rimasto a
lungo ma quando, dopo Jolanda e Irma, si alzarono anche Alfredo ed Aurelio,
disse ad Anna: «Ce ne andiamo anche noi?»
«È
stato bello – commentò Giorgio – mi dispiace solo di non avervi potuto godere
di più.»
Scesero tutti insieme.
Anna camminava avanti a tutti, la grande sciarpa azzurra di bambù stretta
intorno al viso a bloccare le lacrime che dalle viscere le salivano agli occhi.
La malinconia era una pioggia sottile che le allagava il cuore.
I tre uomini si misero al
volante di macchine simili. Anna chiuse la portiera dietro di sé, Antonio mise
in moto. Rimasero un po’ in silenzio. Poi Antonio disse: «Forse,
avremmo dovuto chiedere di salutare la moglie.»
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