«Quell’autunno
del 1928 se lo ricordano tutti per una delle annate più fruttuose del secolo.
L’olio pareva volesse uscire dalla pietre tanto ne era stato prodotto. Le donne
del posto lo usavano per ammorbidire la pelle dei neonati, per conservare
sazizze, limunciane, cucuzzelli e finci, gli uomini per lubrificare le ruote
dei carri. I muri erano impregnati d’olio, odoravano di frittura. A casa mia
quel tanfo mi costringeva a volte a trattenere il respiro, mi entrava nelle
narici, facendomi passare anche la voglia di mangiare. Del primo periodo
trascorso a Caccuri non ricordo altro se non quella puzza. Ci volle del tempo e
solo con l’andare degli anni imparai a conoscere lo struggente canto degli ulivi
calabresi.»
Martino
Aiello – nato a Fondo Margherita «proprio al confine fra Crotone e il comune di
Strongoli, nel mese di luglio del 1919, in un immenso palazzo prima del mare» –
trova presto a Caccuri, dove il padre funzionario comunale è stato trasferito,
il suo luogo dell’anima: «Non che avessi dimenticato Crotone, il mare,
Capocolonna, per non parlare del clima mite… avevo, però, finalmente capito che
era giunto il momento di scegliere un posto e farne il cardine della mia vita….
Tutto a Caccuri sapeva di me, o meglio, ero io che incominciavo a prendere i
sapori di Caccuri.»
Fa presto
amicizia con Tomaso Chiarello, intelligente e sfuggente, «vampa, stimolo, ma
anche segreto, verità celate», Giovanni Pignanielli, pastore e amante dei
libri, e ‘Ntriella, che diventerà, poi, suo cognato. La vita di Martino
s’intreccia profondamente con quella dei suoi amici, mentre il fascismo, cui si
sente del tutto estraneo, si rafforza: «In quegli anni, mi accadeva di
ascoltare il paese penare, di sentire il cuore della gente patire, il respiro
di chi mi passava vicino diventare sempre più affannato. …Una sofferenza
dignitosa, incollata sulle facce di padri svigoriti, con le mani indurite da
terre mai troppo generose, zappone sulle spalle e bisaccia quasi vuota.» Neppure
il rapporto non semplice col padre toglie a Martino una grande serenità: «Ero
circondato da persone che amavo: tutto davanti a me aveva il sapore buono della
terra, ricco di un aroma in attesa di essere acchiappato con le mani
aperte. (…) E fu così ancora per alcuni anni, poi la realtà assunse
colori che neanche la nottata più lunga sarebbe stata mai capace di farmi
vivere.»
È l’inatteso
viaggio che porta Martino, ormai quasi ottantenne, a Buenos Aires per
l’apertura del testamento di Tomaso a fargli ripercorrere l’esistenza sua e dei
suoi amici, sbrogliando, finalmente, gli oscuri intrighi che li intrecciano
alla Calabria povera e fascista e, poi, alla Calabria «che a fatica si
allontanava dalla miseria. Ci si stava incamminando sulla strada del benessere,
anche se ancora incanto e rinunce si attorcigliavano nelle stesse vituzze,
alternandosi, metro dopo metro», alla Germania nazista e all’Argentina della
fine dei anni Novanta.
Amori
regalati di Olimpio
Talarico, pubblicato da Aliberti, è, insieme, un memoir, che dà spazio alla
memoria emotiva del protagonista, un noir teso a svelare due omicidi che
segnano la vita di Martino e dei suoi compagni, e un appassionato omaggio ad un
piccolo paese della Sila: «Non mi resta altro da fare che pensare e immergermi nelle
strade deserte di Caccuri, con l’aria dolce, le montagne da una parte e il mare
dall’altra, i giorni e le notti straripanti di silenzi profumati, i crepuscoli
con le ombre … A Caccuri apparentemente non succede nulla, ma non appena metti
il naso fuori dall’uscio di casa resti imprigionato da esistenze che si
incrociano senza incontrarsi. Perché le gioie, gli affanni restano nell’aria e
sull’asfalto per giorni interi. I pensieri svolazzano sui sanpietrini e poi
raggiungono la torre del castello e da lì planano sulle teste di chi è pronto
ad accoglierli. Perché tutto a Caccuri si mescola, frammenti di vita arrivano
con forza nelle vite degli altri e così non si è mai soli, nonostante le strade
siano deserte, quasi abbandonate.»
Ancora di
più, Amori regalati è un libro sulla straordinaria forza delle donne,
con gli sfaccettati ritratti di Marietta e Marta, e sull’amicizia, sulle sue
ragioni che, come dice Marietta a Martino, sono più forti e misteriose di
quelle dell’amore: e vincolano non solo oltre il tempo, ma anche oltre la
stessa coscienza del bene e del male.
Pubblicato
su Zoomsud: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/104378-le-recensioni-di-maria-franco-amori-regalati-di-olimpio-talarico-aliberti
«Vivevo a Catanzharu dove non avvenne mai nulla. Così
dicevano i miei amici e tutti i miei parenti. Cca ‘on c’è nenta. A Cosenza non
ci fu mai nenta, a Riggiu pu pu pu pu pu pu pu…E anche dopo non avvenne mai
nulla. Così è destinato. Pure ora a Catanzharu non succede, non succederà mai
nulla. Nulla, a parte Massimeddu.»
Massimeddu è Massimo Palanca, ala sinistra della
locale squadra di calcio, che tra il 1974 e il 1981 segna tredici gol su calcio
d’angolo: «La palla parte, vola, sta in aria un poco, poi gira, gira di un modo
che non si può dire, gira che pare che va da un’altra parte. Ma poi gira
giusto. Giusto e non sbagliato. Ed entra.» Riesce a farlo perché, in ore e ore
di allenamento solitario, impara a sfruttare il vento: «In questa città il
vento non manca mai. Quando lo trovi un amico caro? Quando non tira vento a
Catanzharu. Poi ci sono quelli che si sono applicati e hanno fatto una versione
poetica: Trovare un ver’amico è tanto raro com’un dì senza vento a Catanzharu.
Doppio endecasillabo a maiore di tipo giambico, rima baciata, accenti su
seconda, sesta, ottava decima sillaba.»
Riferimento mitico di una città e di una regione ai
margini della storia nazionale, simbolo di riscatto sociale e di possibili
cambiamenti rivoluzionari, Massimeddu diventa l’immaginario confidente di Vito
Librandi, da ragazzino appena trasferitosi con la famiglia in una casa da cui
si vede un pezzo di stadio a giovane post liceale.
Nel quotidiano, surreale, colloquio interiore con il
suo mito, Vito trasforma la sua esperienza di ragazzo di provincia in una sorta
di leggenda minore della profonda trasformazione che l’Occidente stava vivendo.
L’epopea dell’uomo-gol – «C’è tutto in quella palla.
Il genitivo, l’ablativo e il dativo. Ogni tipo di complemento e in particolare
il moto a luogo» – è il contrappunto di una crescita che, dopo un’infanzia normale
e la grande fatica dei due anni di ginnasio (tipica di chi ci arrivava da una
situazione sociale-culturale non agiata), s’interseca con le due grandi
correnti dell’Occidente contemporaneo: il movimento femminista e il movimento
autonomista, non esente, quest’ultimo, da legami col terrorismo.
Ettore Castagna in Tredici gol dalla bandierina,
edito da Rubbettino, descrive quell’epoca di forti trasformazioni
socio-culturali, di grandi illusioni e altrettante grandi delusioni dando
un’immagine della Calabria molto lontana dagli stereotipi. Il liceo Pasquale
Galluppi di Catanzaro (città molto poco raccontata: un eccesso di silenzio che
questo libro riscatta) diventa, nel testo di Castagna, un laboratorio di
trasformazioni generazionali, culturali, sentimentali, non diversamente da
quello che accadeva, negli stessi anni, nei licei di città molto meno
periferiche.
Una frattura storica che resta, però, ampiamente
irrisolta. Vito Librandi ne esce malconcio sul piano politico e su quello
sociale. Dopo il liceo, mentre molti dei suoi compagni vanno all’università
lontano dalla propria terra, Vito finisce come improbabile venditore di
corredi, girando con una vecchia macchina nell’entroterra calabrese. Ancora di
più gli pesa la ferita sentimentale, l’essere scaricato da Luisa dagli occhi
verdi, «No, forse ha gli occhi azzurri. Come ha gli occhi Luisa non lo so
dire», che «si veste come tutte le compagne femministe, con le gonne a fiori e
con le camicie larghe e gli zoccoli ai piedi. Però a me sembra completamente
diversa». Lei che gli aveva ripetuto: «Io pure questo ti volevo dire, che sei
diverso. Mi sento accolta come donna. Tutti si avvicinano per quell’altro
motivo, tu no. Tu sei dolce, hai rispetto, voglio la tua amicizia», e per la
quale era diventato comunista: «Luisa l’ho vista al PdUP anche se è una
compagna del movimento. Partito di Unità Proletaria per il Comunismo. Ci vuole
menza jornata a dirlo ma a mmia non mi interessa. Io vado per Luisa perché l’ho
vista fuori il Galluppi che vende il Manifesto e pure Lotta Continua e tutti i
giorni le compro il Manifesto oppure Lotta Continua.»
Metafora e termine di paragone delle sue sconfitte, la
cessione di Massimeddu: la squadra del Catanzaro ci guadagna in soldi, ma perde
la sua anima.
Libro di pregevole leggerezza ed ironia, dal tono
surreale, venato da un sotteso sentimento agrodolce, con un linguaggio che
ricalca le modalità dell’epoca, abilmente impastato di termini dialettali e
parole inglesi trascritte come si pronunciano, Tredici gol dalla bandierina,
è uno dei più bei libri pubblicati in Italia sulla poetica del calcio. Ma è
soprattutto l’autobiografia di una generazione che, anche in un luogo
periferico del Sud considerato marginale, provò a fare dei propri sogni realtà.
Una generazione per la quale, nonostante tutti i limiti e le delusioni, gli
anni Settanta restano anni d’oro e non di piombo.
Pubblicato
su Zoomsud: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/104423-le-recensioni-di-maria-franco-tredici-gol-dalla-bandierina-di-ettore-castagna-rubbettino
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