«E questo che è? Il corso
di poesia? E che è la poesia? Scrivere noi, una poesia? No, e che siamo, poeti?»
Scuote la testa, A. e il ciuffo un po’ lungo si allontana dagli occhi vivaci.
Magari, a quest’ora vorrebbe fare qualsiasi altra cosa piuttosto che stare in
classe. Non sospetta che, appena qualche minuto ancora, la poesia entra in
quest’aula e la riempie tutta: e lui e i suoi compagni ne sono avvolti e diventano
poesia nella poesia.
C’è Angela Procaccini,
stamattina, con noi. Legge alcuni suoi versi e li commenta, raccontando la
tragedia che ha segnato la sua esistenza, l’uccisione, da parte della camorra
che voleva colpire suo marito, magistrato, della sua bambina, undicenne, Simonetta.
Parla, Angela, della sua risposta al male assoluto e al dolore inconsolabile
con un di più di amore per i ragazzi, con una continua donazione di ascolto, di
attenzione, di dolcezza a chi affronta, magari in solitudine, la fatica di crescere.
E accade il miracolo. Gli
sguardi indifferenti, o spocchiosi o assenti si velano. E i ragazzi rammentano, ricordano, rimembrano: magari per pochi minuti – ma sono minuti d’infinito
– la mente, il cuore, le membra si raccolgono in un’unità profonda.
Non c’è più Nisida, né
quest’aula, né il mondo circostante. C’è, per ognuno, il nucleo del proprio
dolore segreto, il centro della propria identità, quella particolare malinconia
che è avvertire la verità su se stessi. Quell’intravvedere, per parafrasare
Camus, che nonostante tutto, all’interno
del proprio inverno, c’è un’invincibile estate.
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