A cinquant’anni dagli eventi, è arrivato,
finalmente, un romanzo – Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano, edito
da Giunti – che, con dignità letteraria, racconta la complessità della rivolta
del Boia chi molla. È merito di Turano aver coniugato i molti aspetti
convergenti in quei moti in una narrazione intrigante dallo stile incisivo e
dal linguaggio denso di vita, con tutti gli odori, i sapori, la bellezza e le
oscurità di una terra. Ma è particolarmente intelligente la sua scelta di
mettere al centro del romanzo la corrispondenza di due ragazzini, alunni della
stessa scuola, rimasti separati dagli eventi, uno in un quartiere nord di Reggio
e l’altro a Lazzaro.
Quando la rivolta iniziò, avevo finito da poco il
secondo liceo classico e, l’annata del terzo, quella 1970-197171, la passai, per
lungo tempo (come tutti gli studenti reggini quell’anno), a casa. Il Tommaso
Campanella chiuso, le mie amiche più care distanti: Caterina a Catona,
Angelina a Villa, Gabriella a Sbarre, io a Occhio. Non c’erano i computer né i
telefonini; il telefono, nelle nostre case, come in tutte (e non tutte l’avevano)
era il telefono di famiglia, usato per necessità, non per conversare.
La mia, personale, esperienza della rivolta si
identifica con l’assenza da scuola; le, più numerose per mancanza di compiti,
passeggiate in campagna (dove i mandorli fiorivano belli della stessa bellezza
che ho visto, in foto, solo poco prima della chiusura di tutti in casa quest’anno);
e, poi, con un ritorno in classe, con i soldati che passeggiavano sulle
balaustre e facevano ala al nostro ingresso ed uscita. (Ci furono matrimoni,
anche di qualche mia amica, con i soldati di guardia alla scuole).
Se mi ha fatto un gran piacere la pubblicazione del
libro, bello, di Turano, continua a farmi meraviglia come né la Rai, né Sky, né
Netfix abbiano approntano, neppure per la ricorrenza dei cinquant’anni, una
serie tv su un momento che non ha uguali nella nostra storia repubblicana e che
non sia annunciato un film. Come è possibile che non ci sia tuttora un film che
inizi, magari, con i carri armati che sferragliano sul un lungomare di una
città italiana, in tempo di pace?
Non ho dubbi che gli eventi intercorsi a Reggio (e
a Roma) tra il luglio 1970 e il febbraio 1971 abbiano segnato non solo la
storia della città e della Calabria, ma anche quella dell’Italia e, in
particolare, di tutto il Mezzogiorno.
E sono convinta che:
Uno. Nella rivolta è entrato di tutto un po’: dalla
destra eversiva alla massoneria. Ma dopo. All’inizio, la rivolta è stata
di popolo. Ricchi e poveri. Colti e incolti. Una reazione viscerale. Ci
si può rivoltare solo per un simbolo, senza essere eterodiretti e senza
volere nulla di più del riconoscimento di quello che appare (o è) un proprio
diritto? Certo che sì.
Due. Il fatto che il più grande partito di
opposizione, il PCI, non abbia capito pressoché nulla, è uno degli elementi che
hanno consentito ad altri di guidare, poi, la rivolta. È un limite di
comprensione grave che segna il rapporto sinistra-Mezzogiorno: cosa su cui i conti
sono ancora da fare.
Tre. Alla rivolta, lo Stato ha dato due risposte:
una coercitiva, quella dei carri armati che ne decretano la fine, e l’altra che
voleva innescare sviluppo economico. La prima è scivolata presto via dalla
memoria collettiva (la mia impressione è che, di fatto, non ha accresciuto la
già presente distanza cittadini-Stato). La seconda, è stata progettata male e
condotta peggio. A chi poteva venire in mente di mettere una fabbrica di quel
tipo in quel paradiso naturale che era Saline? Perché si è pensato all’industria
siderurgica, già allora in crisi, per Gioia Tauro? Quanta responsabilità c’è,
in tutto questo, non solo da parte governativa e dei maggiorenti dc e
socialisti calabresi, ma anche di PCI e sindacati? Perché nessuno ha pensato,
per esempio, a modernizzare e industralizzare l’agricoltura?
Quattro. Dalla sconfitta, sono derivate nuove convinzioni
– per esempio che Reggio sia sempre stata fascista – e se ne sono
rafforzate di antiche – che Riggiu non vindiu mai ranu (Reggio non ha
mai venduto grano). Entrambe false (la seconda non solo metaforicamente) ed
entrambe malefiche per la psicologia collettiva, appesantita, nel tempo, anche
dal marchio ‘ndranghetista che, negli ultimi decenni, ci ha accompagnato
per una sorta di pigrizia interpretativa di fenomeni magari (molto) diversi.
Cinque. Occuparsi, oggi, dei moti reggini non
significa certo riaprire a tensioni che, per fortuna, non ci sono, ma
richiamare l’attenzione sul presente della Calabria tutta. Focalizzando lo
sguardo sul territorio reggino, allora mancò una visione adeguata a
portarci verso un futuro migliore. Oggi abbiamo una terra depauperata dall’emigrazione
(di laureati in particolare), con scarse industrie, un’agricoltura debole,
spiagge devastate, servizi carenti e potremmo continuare l’elenco del negativo
per un bel po’. Ci occorre una lista del positivo (che c’è, magari nascosto o
sottotraccia) e una visione ampia e profonda per ripartire dopo la
mazzata Covid 19.
Ripreso su Zoomsud:
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