domenica 21 giugno 2020

Due o tre cose che so sulla rivolta di Reggio






A cinquant’anni dagli eventi, è arrivato, finalmente, un romanzo – Salutiamo, amico di Gianfrancesco Turano, edito da Giunti – che, con dignità letteraria, racconta la complessità della rivolta del Boia chi molla. È merito di Turano aver coniugato i molti aspetti convergenti in quei moti in una narrazione intrigante dallo stile incisivo e dal linguaggio denso di vita, con tutti gli odori, i sapori, la bellezza e le oscurità di una terra. Ma è particolarmente intelligente la sua scelta di mettere al centro del romanzo la corrispondenza di due ragazzini, alunni della stessa scuola, rimasti separati dagli eventi, uno in un quartiere nord di Reggio e l’altro a Lazzaro. 

Quando la rivolta iniziò, avevo finito da poco il secondo liceo classico e, l’annata del terzo, quella 1970-197171, la passai, per lungo tempo (come tutti gli studenti reggini quell’anno), a casa. Il Tommaso Campanella chiuso, le mie amiche più care distanti: Caterina a Catona, Angelina a Villa, Gabriella a Sbarre, io a Occhio. Non c’erano i computer né i telefonini; il telefono, nelle nostre case, come in tutte (e non tutte l’avevano) era il telefono di famiglia, usato per necessità, non per conversare. 

La mia, personale, esperienza della rivolta si identifica con l’assenza da scuola; le, più numerose per mancanza di compiti, passeggiate in campagna (dove i mandorli fiorivano belli della stessa bellezza che ho visto, in foto, solo poco prima della chiusura di tutti in casa quest’anno); e, poi, con un ritorno in classe, con i soldati che passeggiavano sulle balaustre e facevano ala al nostro ingresso ed uscita. (Ci furono matrimoni, anche di qualche mia amica, con i soldati di guardia alla scuole).

Se mi ha fatto un gran piacere la pubblicazione del libro, bello, di Turano, continua a farmi meraviglia come né la Rai, né Sky, né Netfix abbiano approntano, neppure per la ricorrenza dei cinquant’anni, una serie tv su un momento che non ha uguali nella nostra storia repubblicana e che non sia annunciato un film. Come è possibile che non ci sia tuttora un film che inizi, magari, con i carri armati che sferragliano sul un lungomare di una città italiana, in tempo di pace?

Non ho dubbi che gli eventi intercorsi a Reggio (e a Roma) tra il luglio 1970 e il febbraio 1971 abbiano segnato non solo la storia della città e della Calabria, ma anche quella dell’Italia e, in particolare, di tutto il Mezzogiorno.
E sono convinta che:

Uno. Nella rivolta è entrato di tutto un po’: dalla destra eversiva alla massoneria. Ma dopo. All’inizio, la rivolta è stata di popolo. Ricchi e poveri. Colti e incolti. Una reazione viscerale. Ci si può rivoltare solo per un simbolo, senza essere eterodiretti e senza volere nulla di più del riconoscimento di quello che appare (o è) un proprio diritto? Certo che sì. 

Due. Il fatto che il più grande partito di opposizione, il PCI, non abbia capito pressoché nulla, è uno degli elementi che hanno consentito ad altri di guidare, poi, la rivolta. È un limite di comprensione grave che segna il rapporto sinistra-Mezzogiorno: cosa su cui i conti sono ancora da fare.

Tre. Alla rivolta, lo Stato ha dato due risposte: una coercitiva, quella dei carri armati che ne decretano la fine, e l’altra che voleva innescare sviluppo economico. La prima è scivolata presto via dalla memoria collettiva (la mia impressione è che, di fatto, non ha accresciuto la già presente distanza cittadini-Stato). La seconda, è stata progettata male e condotta peggio. A chi poteva venire in mente di mettere una fabbrica di quel tipo in quel paradiso naturale che era Saline? Perché si è pensato all’industria siderurgica, già allora in crisi, per Gioia Tauro? Quanta responsabilità c’è, in tutto questo, non solo da parte governativa e dei maggiorenti dc e socialisti calabresi, ma anche di PCI e sindacati? Perché nessuno ha pensato, per esempio, a modernizzare e industralizzare l’agricoltura?

Quattro. Dalla sconfitta, sono derivate nuove convinzioni – per esempio che Reggio sia sempre stata fascista – e se ne sono rafforzate di antiche – che Riggiu non vindiu mai ranu (Reggio non ha mai venduto grano). Entrambe false (la seconda non solo metaforicamente) ed entrambe malefiche per la psicologia collettiva, appesantita, nel tempo, anche dal marchio ‘ndranghetista che, negli ultimi decenni, ci ha accompagnato per una sorta di pigrizia interpretativa di fenomeni magari (molto) diversi.

Cinque. Occuparsi, oggi, dei moti reggini non significa certo riaprire a tensioni che, per fortuna, non ci sono, ma richiamare l’attenzione sul presente della Calabria tutta. Focalizzando lo sguardo sul territorio reggino, allora mancò una visione adeguata a portarci verso un futuro migliore. Oggi abbiamo una terra depauperata dall’emigrazione (di laureati in particolare), con scarse industrie, un’agricoltura debole, spiagge devastate, servizi carenti e potremmo continuare l’elenco del negativo per un bel po’. Ci occorre una lista del positivo (che c’è, magari nascosto o sottotraccia) e una visione ampia e profonda per ripartire dopo la mazzata Covid 19.


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