lunedì 25 novembre 2019

Piccole storie da Nisida: L’albero del Vicks


Nisida, festa dell'albero 2018
Sei parente di Giuseppe? aveva chiesto l’educatrice al primo colloquio. Marco aveva alzato le spalle e stretto la bocca in una smorfia come per dire: Ma chi è? Due giorni dopo, Giuseppe e Marco stavano seduti, alla mia ombra, sulla stessa panchina. Giuseppe, che si vantava d’essere il miglior centravanti nella storia di Nisida, s’era fatto male ad una caviglia, in una partita a calcetto agenti – ragazzi, vinta dai primi, ma con tre gol suoi. Alla pausa di metà mattina, aveva rinunciato a tirare due pallonate a canestro e s’era allungato sulla panchina. Marco, che di natura era pigro e che un pallone non sapeva prenderlo a calci e neppure lanciarlo a mano, si sedette accanto a lui. Uno più snello, l’alto più robusto, uno più chiaro di pelle, l’altro più olivastro, avevano lo stesso taglio di occhi e, nella voce, un timbro simile. Tornarono, senza molta voglia, Giuseppe a ceramica, Marco a scuola, e nei giorni successivi cercarono ogni occasione di parlarsi e ogni possibilità di sfuggirsi. Quando di nuovo si sedettero sotto la mia ombra, più spavaldo Giuseppe, più restio Marco, si sorrisero: Ciao, frà.

Fortuna che, quel giorno, c’era un po’ di vento. Così, nessuno capì che tremavo in ogni foglia, in ogni nervatura della corteccia, che la linfa non mi risaliva più lungo i rami. Quando Giuseppe e Marco scoprirono d’essere fratelli, due madri e un solo padre – nel tempo, avrebbero considerato una fortuna essere finiti insieme in carcere, se, no, magari, non l’avrebbero saputo mai – non è l’unica volta che mi sono commosso. Mi è capitato quando Angelica disse: Ho fatto un voto. Se mi fanno rivedere Vale, non fumo più. Prese dalla tasca del giubbotto un pacchetto di sigarette e lo passò a Elena, che se lo girò un po’ in mano e lo passò a Carmen, che le sue le aveva finite. Carmen ne accese una, ma, dopo il primo tiro, ci ripensò: Da quant’è che non vedi tua figlia? – Sei mesi. Mia suocera l’ha portata lontano; ora, Vale sta con mia cognata. Forse, questo sabato me la porta a colloquio. Elena tirò su col naso: Per oggi, non fumiamo neanche noi. E tutte riposero le sigarette. L’unica volta che un po’ di fumo addosso l’avrei voluto, una piccola nuvola per nascondere l’emozione.

E mi sono commosso quando ho visto Nicola, i capelli unti di gel, il gilè e la cravatta argentati, e le scarpe lucide, che andava a raggiungere la sposa vestita di bianco nella sala colloqui, e Salvatore, che aveva mantenuto la faccia da duro per il fratello morto sparato, piangere per un cugino finito di cancro.

Già, le facce. Anche se cambia la moda dei capelli, le facce sono sempre uguali. O, forse, no. Se torno indietro nel tempo, non vedo solo facce di ragazzi, ma anche di uomini maturi e, magari, anziani. Io c’ero quando uscì dalla torre il conte Poerio: scendeva lento, i passi stentati di chi per troppo tempo è stato rinchiuso, nel volto la dignità di chi si piega solo alla sua coscienza. Mai, ho visto uno sguardo come il suo.

I miei ricordi, li racconto al vento e agli uccelli che mi si poggiano sui rami. Ho un’età, ma sono ancora giovane per un albero della mia specie. Una diecina d’anni fa, m’è caduto addosso un fulmine. Mi ha squarciato il tronco e schiacciato a terra gran parte dei rami. Per alcuni mesi sembrai morto, tanto che iniziarono a segarmi. Ma dalla cavità del tronco ricominciarono a crescere e a inverdirsi dei rami. Mi ricordo di me più folto, radici ben ramificate, i nidi nascosti tra le foglie, ma la mia ombra ha superato di nuovo una panchina e, quasi, ne copre una seconda. Agenti, educatrici, assistenti sociali, ragazzi e ragazze se ne stanno volentieri sotto i miei rami. 

Un giorno, l’agente Maurizio mi ha preso una foglia, l’ha spezzata e ha detto a Vittorio e a Luca: Sembra il Vicks. – Cioè, hanno chiesto. L’agente Maurizio ha tolto dal giubbotto un barattolino azzurrato con dentro una specie di unguento: Lo fanno da quest’albero, ha detto, da piccolo, mia mamma me lo spalmava sul petto quand’ero raffreddato, ora mi massaggio il collo, quando mi fa male. A sentirsi male sono stato io: Ma che, mi vogliono trasformare in unguento? Ma nessuno m’ha toccato e nessuno ha mai più pronunciato quel nome. A me, l’odore del Vicks neppure piace. Il mio, sì. È bello.

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