Sei
parente di Giuseppe? aveva chiesto l’educatrice al primo
colloquio. Marco aveva alzato le spalle e stretto la bocca in una smorfia come
per dire: Ma chi è? Due giorni dopo,
Giuseppe e Marco stavano seduti, alla mia ombra, sulla stessa panchina.
Giuseppe, che si vantava d’essere il miglior centravanti nella storia di
Nisida, s’era fatto male ad una caviglia, in una partita a calcetto agenti –
ragazzi, vinta dai primi, ma con tre gol suoi. Alla pausa di metà mattina,
aveva rinunciato a tirare due pallonate a canestro e s’era allungato sulla
panchina. Marco, che di natura era pigro e che un pallone non sapeva prenderlo
a calci e neppure lanciarlo a mano, si sedette accanto a lui. Uno più snello,
l’alto più robusto, uno più chiaro di pelle, l’altro più olivastro, avevano lo
stesso taglio di occhi e, nella voce, un timbro simile. Tornarono, senza molta
voglia, Giuseppe a ceramica, Marco a scuola, e nei giorni successivi cercarono
ogni occasione di parlarsi e ogni possibilità di sfuggirsi. Quando di nuovo si
sedettero sotto la mia ombra, più spavaldo Giuseppe, più restio Marco, si
sorrisero: Ciao, frà.
Fortuna che, quel giorno,
c’era un po’ di vento. Così, nessuno capì che tremavo in ogni foglia, in ogni
nervatura della corteccia, che la linfa non mi risaliva più lungo i rami.
Quando Giuseppe e Marco scoprirono d’essere fratelli, due madri e un solo padre
– nel tempo, avrebbero considerato una fortuna essere finiti insieme in carcere, se,
no, magari, non l’avrebbero saputo mai – non è l’unica volta che mi sono
commosso. Mi è capitato quando Angelica disse: Ho fatto un voto. Se mi fanno rivedere Vale, non fumo più. Prese
dalla tasca del giubbotto un pacchetto di sigarette e lo passò a Elena, che se
lo girò un po’ in mano e lo passò a Carmen, che le sue le aveva finite. Carmen
ne accese una, ma, dopo il primo tiro, ci ripensò: Da quant’è che non vedi tua figlia? – Sei mesi. Mia suocera l’ha
portata lontano; ora, Vale sta con mia cognata. Forse, questo sabato me la
porta a colloquio. Elena tirò su col naso: Per oggi, non fumiamo neanche noi. E tutte riposero le sigarette.
L’unica volta che un po’ di fumo addosso l’avrei voluto, una piccola nuvola per
nascondere l’emozione.
E mi sono commosso quando
ho visto Nicola, i capelli unti di gel, il gilè e la cravatta argentati, e le
scarpe lucide, che andava a raggiungere la sposa vestita di bianco nella sala
colloqui, e Salvatore, che aveva mantenuto la faccia da duro per il fratello
morto sparato, piangere per un cugino finito di cancro.
Già, le facce. Anche se
cambia la moda dei capelli, le facce sono sempre uguali. O, forse, no. Se torno
indietro nel tempo, non vedo solo facce di ragazzi, ma anche di uomini
maturi e, magari, anziani. Io c’ero quando uscì dalla torre il conte Poerio:
scendeva lento, i passi stentati di chi per troppo tempo è stato rinchiuso, nel
volto la dignità di chi si piega solo alla sua coscienza. Mai, ho visto uno
sguardo come il suo.
I miei ricordi, li
racconto al vento e agli uccelli che mi si poggiano sui rami. Ho un’età, ma
sono ancora giovane per un albero della mia specie. Una diecina d’anni fa, m’è
caduto addosso un fulmine. Mi ha squarciato il tronco e schiacciato a terra
gran parte dei rami. Per alcuni mesi sembrai morto, tanto che iniziarono a
segarmi. Ma dalla cavità del tronco ricominciarono a crescere e a inverdirsi
dei rami. Mi ricordo di me più folto, radici ben ramificate, i nidi nascosti
tra le foglie, ma la mia ombra ha superato di nuovo una panchina e, quasi, ne
copre una seconda. Agenti, educatrici, assistenti sociali, ragazzi e ragazze se
ne stanno volentieri sotto i miei rami.
Un giorno, l’agente Maurizio mi ha preso una foglia, l’ha spezzata e ha detto a Vittorio e a Luca: Sembra il Vicks. – Cioè, hanno chiesto. L’agente Maurizio ha tolto dal giubbotto un barattolino azzurrato con dentro una specie di unguento: Lo fanno da quest’albero, ha detto, da piccolo, mia mamma me lo spalmava sul petto quand’ero raffreddato, ora mi massaggio il collo, quando mi fa male. A sentirsi male sono stato io: Ma che, mi vogliono trasformare in unguento? Ma nessuno m’ha toccato e nessuno ha mai più pronunciato quel nome. A me, l’odore del Vicks neppure piace. Il mio, sì. È bello.
Un giorno, l’agente Maurizio mi ha preso una foglia, l’ha spezzata e ha detto a Vittorio e a Luca: Sembra il Vicks. – Cioè, hanno chiesto. L’agente Maurizio ha tolto dal giubbotto un barattolino azzurrato con dentro una specie di unguento: Lo fanno da quest’albero, ha detto, da piccolo, mia mamma me lo spalmava sul petto quand’ero raffreddato, ora mi massaggio il collo, quando mi fa male. A sentirsi male sono stato io: Ma che, mi vogliono trasformare in unguento? Ma nessuno m’ha toccato e nessuno ha mai più pronunciato quel nome. A me, l’odore del Vicks neppure piace. Il mio, sì. È bello.
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