lunedì 11 novembre 2019

Piccole storie da Nisida: La ciotola del latte




La mia, è una vita tranquilla. Di prima mattina, mi mettono su uno dei tavoli del refettorio, poi qualcuno dei ragazzi mi riempie di latte e di biscotti e a rapide cucchiaiate mi svuota. Mi riportano in cucina, mi lavano, mi asciugano e mi lasciano lì ad aspettare la mattina del giorno dopo.
Dalla cucina al refettorio e dal refettorio in cucina, pochi minuti e la mia giornata è finita.

Oggi, ho fatto un viaggio. È venuto a prendermi Luca, mi ha messo su un vassoio con la brocca del latte, abbiamo attraversato il cortile dove gabbiani in carne passeggiavamo tranquilli sotto altri gabbiani dipinti su un muro, siamo entrati nella palazzina di fronte e abbiamo raggiunto la stanza di Vincenzo.

Vincenzo l’avevo visto sempre atteggiato secondo il suo cognome: lo sguardo orgoglioso, la parola pronta, capace di dare ordini con il solo movimento delle ciglia, curate più di quelle di una modella.
Trentotto e tre di febbre – un virus influenzale senza troppi sintomi – è bastato per togliergli l’aria da capo, gli occhi ridotti a due fessure, i capelli scomposti, la voce di chi sta passando un guaio. Non voleva neppure fare colazione, ha bevicchiato qualche sorso di latte lasciandomi addosso il calore delle labbra e, dentro, metà di pan di stelle e s’è ributtato sul letto a peso morto.

Tornando verso la cucina, ho visto cos’è la mattina fuori dal refettorio: l’infermiera che passa da noi a prendersi il caffè stava salendo la curva del piazzale Poerio insieme alla maestra di ceramica; dietro di loro, il maestro di edilizia e il pasticciere. Nel cortile, davanti ad un puzzle di mattonelle a forma d’aquilone, due agenti con un foglio in mano, pronti a chiamare i ragazzi per le varie attività. Sotto le scale che portano a scuola, la maestra Tina ha detto a Luca: Oggi, finiamo quel lavoro al computer.

Solo quando mi sono ritrovata nel lavello con tutte le altre ciotole, mi sono accorta che avevo passato nella stanza di Vincenzo tutto il tempo della colazione. Di solito, appena lavata, m’addormento. Non per stanchezza, per noia. Ma l’eccitazione del viaggio mattutino m’ha lasciata gli occhi ben aperti. Ho seguito tutta la preparazione del pranzo, col cuoco e la vice cuoca – è quasi ipnotico veder tagliare tante melenzane e zucchini – e quella dei tavoli, apparecchiati da Luca, che, di scuola, ne ha fatta metà, e da Francesco, che, in cucina, ci sta a tempo pieno.

Al tavolo tre ridono, sarà Marco che racconta barzellette. Al tavolo sei, mangiano zitti, Ciro sembra nervoso – ha la causa tra una settimana, l’avvocato gli ha detto che, forse, uscirà e forse no. Al tavolo due, il compagno più compagno di Vincenzo, che lo segue come un cagnolino, s’atteggia a capo. Antonio, dal tavolo opposto, lo guarda come si guardano le pulci con la tosse: Ma chi ti credi di essere? Giuseppe, il compagno più compagno, vorrebbe reagire, ma Francesco gli dà un calcio negli stinchi: Non è il momento. Giuseppe e Antonio provano a guardarsi senza sfidarsi: la tensione che cominciava a salire, si distende. Al tavolo sette, Carlo ricomincia il discorso interrotto: ormai è fatta, andrà all’art.21. Già si immagina ad un lavoro, qualsiasi lavoro: lui, di carcere, non ne può più. Lo prendono in giro, al suo tavolo: Dicono tutti così, ma poi. Carlo ha paura di non farcela, ma la nasconde pure a se stesso per non spaventarsi troppo: Vedrete, vedrete, io ho chiuso, il lavoro è il mio futuro.

Il pranzo è già finito, con la mente i ragazzi sono già a letto, a dormire o a vedere la tv oppure sotto la doccia. Non avranno molto tempo, tra poco più di un’ora e mezza riprenderanno le attività.
Forse, potrei fare un riposino anch’io. Ma, stasera, voglio svegliarmi e seguire la cena. E, da domani, non perderò né pranzo né cena. Voglio sapere tutto di Luca, di Francesco, di Antonio, di Vincenzo, di Giuseppe e di tutti gli altri. La vita è sciapa senza storie. Giuro su latte e biscotti che non me ne perderò più una.

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