La mia, è una vita
tranquilla. Di prima mattina, mi mettono su uno dei tavoli del refettorio, poi
qualcuno dei ragazzi mi riempie di latte e di biscotti e a rapide cucchiaiate
mi svuota. Mi riportano in cucina, mi lavano, mi asciugano e mi lasciano lì ad
aspettare la mattina del giorno dopo.
Dalla cucina al
refettorio e dal refettorio in cucina, pochi minuti e la mia giornata è finita.
Oggi, ho fatto un
viaggio. È venuto a prendermi Luca, mi ha messo su un vassoio con la brocca del
latte, abbiamo attraversato il cortile dove gabbiani in carne passeggiavamo
tranquilli sotto altri gabbiani dipinti su un muro, siamo entrati nella
palazzina di fronte e abbiamo raggiunto la stanza di Vincenzo.
Vincenzo l’avevo visto
sempre atteggiato secondo il suo cognome: lo sguardo orgoglioso, la parola pronta,
capace di dare ordini con il solo movimento delle ciglia, curate più di quelle
di una modella.
Trentotto e tre di febbre
– un virus influenzale senza troppi sintomi – è bastato per togliergli l’aria
da capo, gli occhi ridotti a due fessure, i capelli scomposti, la voce di chi
sta passando un guaio. Non voleva neppure fare colazione, ha bevicchiato qualche
sorso di latte lasciandomi addosso il calore delle labbra e, dentro, metà di
pan di stelle e s’è ributtato sul letto a peso morto.
Tornando verso la cucina,
ho visto cos’è la mattina fuori dal refettorio: l’infermiera che passa da noi a
prendersi il caffè stava salendo la curva del piazzale Poerio insieme alla
maestra di ceramica; dietro di loro, il maestro di edilizia e il pasticciere.
Nel cortile, davanti ad un puzzle di mattonelle a forma d’aquilone, due agenti
con un foglio in mano, pronti a chiamare i ragazzi per le varie attività. Sotto
le scale che portano a scuola, la maestra Tina ha detto a Luca: Oggi, finiamo
quel lavoro al computer.
Solo quando mi sono
ritrovata nel lavello con tutte le altre ciotole, mi sono accorta che avevo
passato nella stanza di Vincenzo tutto il tempo della colazione. Di solito,
appena lavata, m’addormento. Non per stanchezza, per noia. Ma l’eccitazione del
viaggio mattutino m’ha lasciata gli occhi ben aperti. Ho seguito tutta la
preparazione del pranzo, col cuoco e la vice cuoca – è quasi ipnotico veder
tagliare tante melenzane e zucchini – e quella dei tavoli, apparecchiati da
Luca, che, di scuola, ne ha fatta metà, e da Francesco, che, in cucina, ci sta
a tempo pieno.
Al tavolo tre ridono,
sarà Marco che racconta barzellette. Al tavolo sei, mangiano zitti, Ciro sembra
nervoso – ha la causa tra una settimana, l’avvocato gli ha detto che, forse,
uscirà e forse no. Al tavolo due, il compagno più compagno di Vincenzo, che lo
segue come un cagnolino, s’atteggia a capo. Antonio, dal tavolo opposto, lo
guarda come si guardano le pulci con la tosse: Ma chi ti credi di essere?
Giuseppe, il compagno più compagno, vorrebbe reagire, ma Francesco gli dà un
calcio negli stinchi: Non è il momento. Giuseppe e Antonio provano a guardarsi
senza sfidarsi: la tensione che cominciava a salire, si distende. Al tavolo
sette, Carlo ricomincia il discorso interrotto: ormai è fatta, andrà
all’art.21. Già si immagina ad un lavoro, qualsiasi lavoro: lui, di carcere,
non ne può più. Lo prendono in giro, al suo tavolo: Dicono tutti così, ma poi.
Carlo ha paura di non farcela, ma la nasconde pure a se stesso per non
spaventarsi troppo: Vedrete, vedrete, io ho chiuso, il lavoro è il mio futuro.
Il pranzo è già finito,
con la mente i ragazzi sono già a letto, a dormire o a vedere la tv oppure
sotto la doccia. Non avranno molto tempo, tra poco più di un’ora e mezza
riprenderanno le attività.
Forse, potrei fare un
riposino anch’io. Ma, stasera, voglio svegliarmi e seguire la cena. E, da
domani, non perderò né pranzo né cena. Voglio sapere tutto di Luca, di
Francesco, di Antonio, di Vincenzo, di Giuseppe e di tutti gli altri. La vita è
sciapa senza storie. Giuro su latte e biscotti che non me ne perderò più una.
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