mercoledì 20 novembre 2019

Piccole storie da Nisida: Il tozzetto


Immagine Nesis

Ringrazio tutti quelli che hanno espresso dispiacere per l’annunciata fine pubblicazione dei miei raccontini nisidiani. Dedico a loro qualche altra piccola storia sul nostro piccolo, grande, mondo.


Che bello, mi hanno detto tante volte. Ma. Però. Peccato che. E le mani che mi avevano preso, di nuovo mi riponevano sulla mensola degli scarti. Mi ha disegnato la maestra Natalia. Non un vesuvio come gli altri, ma una montagna sorgente dal mare. Tonino mi ha dipinto con pennellate di ogni azzurro esistente, delicate e precise. Quando sono uscito dal forno – bello quanto mai tozzetto è stato – sono scivolato dalle mani di Ciro. Che si fece una risata. Tonino s’ingrugnì; gli occhi, da scuri, divennero color della pece incandescente e la voce, da basso profondo, s’ingarbugliò in rochi balbettii. Litigarono. E non si parlarono più. Ciro aveva mani lunghe e sottili, prive di gentilezza, e si pensava troppo intelligente per dover imparare un po’ di garbo. Tonino era asprigno e risentito, scorbutico e dolce. Scoprì che dipingere l’alleggeriva di quel peso alla testa in cui il lungo uso di droghe gli ammassava i pensieri. E chiese di passare in laboratorio tutto il tempo possibile. Pregò e ripregò finché gli concessero di starci anche di pomeriggio. Lui e alcune ragazze. 

È stato il periodo più bello della mia vita. Il calore del forno e, dalla finestra, la vista del mare dal sole allo zenit al tramonto. E un gruppetto di voci giovani che mi sembravano, più che un coro, un’orchestra. Con Patrizia, primo violino, che si prendeva gran parte della scena: erano i suoi ultimi mesi di parecchi anni di carcere, e tutta l’ansia del fuori diventava un fiume di parole, risate, improvvisi mutismi e poi, ancora, parole a cascata. Tonino sembrava quello dei tamburi. Come in quelle composizioni in cui non ce ne sono più di due o tre tocchi, ma, senza, la musica sarebbe priva di nerbo. Parlava poco, Tonino; quando diceva, era un colpo che spaccava le pareti. Si concentrava sul lavoro per mantenere la mente sgombra di pensieri. Finché stava in laboratorio, si sentiva al sicuro, come un neonato in grembo ad una madre odorosa di latte. La sua, di madre, mostrava più dei suoi anni, sfrantumata in una famiglia di uomini in galera. Per vederla una volta la settimana, si decise a trasferirsi lontano, in un carcere senza ceramiche da dipingere.

Ora c’è un altro gruppo; ognuno, uno strumento a sé. Se diventeranno un’altra piccola orchestra. Debora ne sarà il pianoforte. Oggi, è stata lei a decidere sui piatti. Cercate i più belli, ha detto la maestra Natalia, e lei ha tirato fuori tutti quelli dipinti da Tonino e Patrizia. Quando sono arrivati Luigi e Mariano, è entrato un venticello che sa di zucchero, uova, burro ed uva passa. Hanno preso i piatti e li hanno portati qui accanto, nel laboratorio di pasticceria, per farne strenne natalizie con panettoni e pandori. 

In ceramica, sono rimasto l’unico oggetto dipinto da Tonino. Un giorno ho rischiato di dovermene andare. Una signora in visita, di quelle importanti e bizzarre, mi voleva per la sua collezione. Colleziono scarti – diceva, le labbra aperte, a sottolineare la parola: scarti – Ne ho raccolti tanti, voglio farne una mostra. La maestra Natalia ha annuito, ha finto di incartarmi, ma, dentro, ci ha messo un altro tozzetto sberciato, non bello come me. Quando la signora se n’è andata, mi ha tirato fuori e mi ha messo in bella vista. Questo resta qua, non lo diamo a nessuno.

Io, le ho fatto un baciamano che neppure una regina. Anche se non lo dice, lo so che se n’è accorta.

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