Ringrazio
tutti quelli che hanno espresso dispiacere per l’annunciata fine pubblicazione
dei miei raccontini nisidiani. Dedico a loro qualche altra piccola storia sul
nostro piccolo, grande, mondo.
Che
bello, mi hanno detto tante volte. Ma. Però. Peccato che. E le mani che mi avevano preso, di nuovo mi
riponevano sulla mensola degli scarti. Mi ha disegnato la maestra Natalia. Non
un vesuvio come gli altri, ma una montagna sorgente dal mare. Tonino mi ha
dipinto con pennellate di ogni azzurro esistente, delicate e precise. Quando
sono uscito dal forno – bello quanto mai tozzetto è stato – sono scivolato
dalle mani di Ciro. Che si fece una risata. Tonino s’ingrugnì; gli occhi, da
scuri, divennero color della pece incandescente e la voce, da basso profondo,
s’ingarbugliò in rochi balbettii. Litigarono. E non si parlarono più. Ciro aveva
mani lunghe e sottili, prive di gentilezza, e si pensava troppo intelligente
per dover imparare un po’ di garbo. Tonino era asprigno e risentito, scorbutico
e dolce. Scoprì che dipingere l’alleggeriva di quel peso alla testa in cui il
lungo uso di droghe gli ammassava i pensieri. E chiese di passare in
laboratorio tutto il tempo possibile. Pregò e ripregò finché gli concessero di
starci anche di pomeriggio. Lui e alcune ragazze.
È stato il periodo più
bello della mia vita. Il calore del forno e, dalla finestra, la vista del mare
dal sole allo zenit al tramonto. E un gruppetto di voci giovani che mi
sembravano, più che un coro, un’orchestra. Con Patrizia, primo violino, che si prendeva
gran parte della scena: erano i suoi ultimi mesi di parecchi anni di carcere, e
tutta l’ansia del fuori diventava un fiume di parole, risate, improvvisi
mutismi e poi, ancora, parole a cascata. Tonino sembrava quello dei tamburi.
Come in quelle composizioni in cui non ce ne sono più di due o tre tocchi, ma,
senza, la musica sarebbe priva di nerbo. Parlava poco, Tonino; quando diceva,
era un colpo che spaccava le pareti. Si concentrava sul lavoro per mantenere la
mente sgombra di pensieri. Finché stava in laboratorio, si sentiva al sicuro,
come un neonato in grembo ad una madre odorosa di latte. La sua, di madre,
mostrava più dei suoi anni, sfrantumata in una famiglia di uomini in galera. Per
vederla una volta la settimana, si decise a trasferirsi lontano, in un carcere
senza ceramiche da dipingere.
Ora c’è un altro gruppo; ognuno,
uno strumento a sé. Se diventeranno un’altra piccola orchestra. Debora ne sarà
il pianoforte. Oggi, è stata lei a decidere sui piatti. Cercate i più belli, ha detto la maestra Natalia, e lei ha tirato
fuori tutti quelli dipinti da Tonino e Patrizia. Quando sono arrivati Luigi e
Mariano, è entrato un venticello che sa di zucchero, uova, burro ed uva passa. Hanno
preso i piatti e li hanno portati qui accanto, nel laboratorio di pasticceria,
per farne strenne natalizie con panettoni e pandori.
In ceramica, sono rimasto
l’unico oggetto dipinto da Tonino. Un giorno ho rischiato di dovermene andare.
Una signora in visita, di quelle importanti e bizzarre, mi voleva per la sua
collezione. Colleziono scarti – diceva,
le labbra aperte, a sottolineare la parola: scarti – Ne ho raccolti tanti, voglio farne una mostra. La maestra Natalia
ha annuito, ha finto di incartarmi, ma, dentro, ci ha messo un altro tozzetto
sberciato, non bello come me. Quando la signora se n’è andata, mi ha tirato
fuori e mi ha messo in bella vista. Questo
resta qua, non lo diamo a nessuno.
Io, le ho fatto un
baciamano che neppure una regina. Anche se non lo dice, lo so che se n’è
accorta.
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