Ora che Luigi ha finito,
posso ricominciare ad ascoltare. Sono testimone di segreti, ma orecchiare le
confessioni mi sembrerebbe quasi un sacrilegio.
Sto in questo luogo da
quando ne hanno fatto una chiesa. Avevano ordinato un crocefisso, più moderno, qualche giorno
prima che, in alcuni lavori di scavo, mi trovassero tra gli ammassi di pietre e
terriccio di un sottoscala. A don Matteo venne l’idea che potessi essere
opera di un artista medievale, o anche rinascimentale, magari di qualche
notorietà. Speranza delusa. Gli esperti hanno detto che, sebbene richiami le
linee e i colori di opere di pregio, sono più vecchio che antico e che la mano
che mi ha dipinto non è di un maestro con la maiuscola. Hanno deciso lo stesso
di mettermi in questa cappella semplice e densa di sacro, che sa di mare.
È giorno di messa, oggi.
Le ragazze non mancano mai: cattoliche, ortodosse, mussulmane, non credenti.
Viene sempre anche Ester che dice di essere atea-atea e si guarda in giro con
aria altezzosa, lo sguardo cupo e le labbra strette, come a voler mostrare che
lei, con questo luogo, non c’entra nulla.
I ragazzi non vengono mai
tutti. C’è chi proprio non sa che farsene di Dio; chi a modo suo ci crede, ma
ha troppi pensieri in testa per reggere una messa; chi preferisce restare nel
campetto, quattro tiri al pallone, due chiacchiere, qualche sigaretta.
Toni fa il chierichetto,
lo prendono un po’ in giro – mo’ vuol fare ‘o buono guaglione – ma resiste. Ci
sono ragazzi che uccidono per eccesso di forza; lui, ha ucciso per eccesso di
fragilità. Ride per non piangere e s’aggrappa anche all’idea di Dio come a una
fune sospesa su un precipizio.
Bartolo è l’erede di una
famiglia camorrista. Sul braccio destro ha tatuata una pistola e padre Pio e,
al polso sinistro, porta una decina del
rosario. Qui, non l’ho mai visto, fin quando non ha iniziato a corteggiare
Valeria. Valeria è quella coi capelli che cambiano colore ogni due settimane,
una volta si fa nera, una volta bionda, un’altra rossa. Da quando la corteggia,
Bartolo si mette al secondo banco sulla destra, il posto migliore per scambiare
sorrisi, occhiate e messaggi muti. Silvio sbaglia qualche in piedi-seduti, ogni
tanto sbadiglia, ma ce la mette tutta a stare attento: spera che don Matteo lo
prenda in comunità, quando uscirà dal carcere.
Emanuele è irrequieto, agita
la gamba destra, si mangia le unghie, si gratta un orecchio, ma sta facendo il
catechismo per la prima comunione – ma sì, mi prendo la terza media e la prima
comunione, almeno faccio qualcosa – e pensa che non può non farsi vedere a
messa. Miki sta in fondo, a testa bassa. Viene dall’Est, non ha famiglia e non
conosce l’italiano. Forse, non ne è sicuro, è ortodosso. Si sente solo ma, in
questa quiete, meno perso di quanto si avverta altrove.
Il momento più bello per
me è quando la messa finisce. Appena don Matteo dice: Andate in pace, tutti, ma
proprio tutti, i ragazzi mi vengono ad accarezzare. Qualcuno lo fa con ritrosia,
un tocco quasi impercettibile. I più, si soffermano su di me con un saluto
circolare, la mano che fa più di un giro, per poi avvicinarsi alle labbra per
un rapido bacio.
Se qualche giorno dai
miei occhi usciranno lacrime, non sarà un miracolo. Sarà tutta la nostalgia che
ho assorbito in quel gesto. Nostalgia d’infanzia mai vissuta. Nostalgia di
futuro mai sperato. Nostalgia d’un mondo dove non si nasca segnati ad una
gioventù sbagliata.
Fine
(almeno per ora) di queste microstorie, pensate per accompagnare il Laboratorio
di Scrittura (e di Lettura). In un luogo di storie spesso dimenticate a se
stesse che proviamo a far venir fuori – perché ognuno è un prezioso racconto da
narrare – ogni cosa, a volerla ascoltare, ha un mondo da raccontare.
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