La tavola imbandita di Henri Matisse |
C’era stato un tempo, da
appena sposata, in cui Marta aveva ospitato a cena una decina o più di persone
ogni fine settimana. E, un altro, quando i figli erano piccoli, in cui aveva
preparato merende e dolci per ogni immaginabile e non immaginabile festa. E,
ancora un altro, in cui aveva cucinato e cucinato perché il convivio era parte
integrante d’un gruppo di persone che, intorno ad una comunità di preti, vedeva
anche la gara tra signore all’ultima lasagna. Poi, con l’ospitalità, aveva
smesso. Aveva servito qualche pranzo, qualche cena: non più di una decina in un
quindicennio. E, per molto tempo, non le era più capitato, se non di rado, di
andare a pranzo o a cena da qualche amico.
Era come se tutto fosse
accaduto per caso: l’inizio come neo sposa-gran cuoca, lei che era arrivata al
matrimonio senza mai friggere un uovo, poi la maternità con i pacchi di
zucchero e farina che lievitavano in dolci sempre diversi: due fasi-cucina che
ricordava con tenerezza e, poi e in parte insieme alla seconda, una fase-cucina
che, già al momento, le provocava come un sospetto di senso e che, vista dal
presente, la lasciava più che perplessa. Sapeva che la parola caso serviva solo
a nascondere il come e il perché, ma le andava bene così. Dunque, per caso era
stata un’ospite fissa, da ospitante e da ospitata e, per caso, aveva cessato
d’essere l’una e l’altra cosa. Da quando aveva ricominciato, sempre per quel
caso che nascondeva il come e il perché, ad essere ospitata, andava via via
allungando una lista.
C’erano quelle come
Raffaella: che si presentava come una gran cuoca e tutti sostenevano la sua
perfezione come una felice ovvietà e, invece, la sua, era una cucina troppo
pesante, mai equilibrata nelle portate e nelle quantità.
C’erano quelle come
Alberta Lucia che, trovato un compagno cui il denaro non mancava, offriva cene
che, più che sobrie, potevano definirsi striminzite; e, anche sull’igiene, era
meglio sorvolare.
C’erano quelli come
Raimondo che, arrivato alla pensione, aveva esautorato la moglie dai fornelli,
studiava ogni menù e, per buona parte del pranzo o della cena, intratteneva gli
ospiti con commenti culinari.
C’erano quelli come
Martina, la cui specialità era un sartù solido e alto come una torre medioevale.
Perché così alto? Le chiedevano. E lei, sincera: Sono bassa, amo le cose alte.
Il cibo per rifarsi, con i commensali-spettatori, dei sensi d’inferiorità che,
nonostante la brillante carriera, la rodevano ancora.
E, poi, c’era Paolo che,
rimasto senza moglie, con ansiosa cura materna, preparava teglie di gnocchi per
quattro persone che ne avrebbero sfamato una decina, e tutti gli chiedevano di
questa o quell’altra ricetta, quando avrebbe avuto tante altre cose da
raccontare. E c’era la sempre accogliente Emilia che cucinava con affettuosa
cura, e, dove, stare a tavola, era chiacchierare tra amici: senza che nessuno
dovesse dimostrarsi più bravo o più buono o più bello in qualunque aspetto
della vita. Anche Anna doveva essere così. Talvolta, aveva portato in ufficio
qualche più che apprezzabile resto della sua cena, ma non l’aveva mai invitata
a casa.
Quanto a lei medesima di
persona personalmente, Marta avrebbe rinviato ancora, oltre il possibile, un
invito a cena a casa sua. Poiché aveva l’ansia di Paolo, ma le mancava la
naturale cordialità di Emilia e la semplicità di Anna, e non voleva rientrare
in nessun’altra categoria.
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