Ho conosciuto ieri una coppia di genitori orfani
di un figlio. Non è la prima. Ne conosco tanti, troppi, che hanno perso un
figlio: per malattia, per incidente; bambino, ragazzo, adulto.
In tutti i casi – con l’esclusione di uno, forse
uno e mezzo – i padri sono entrati in forme, più o meno evidenti, di
depressione, le madri si sono rimboccate il cuore e hanno dato il là al
marito/padre e agli altri figli per ricominciare a vivere: straziate, ma non
annullate dalla morte.
Uomini che sembravano rocce si sono come
decomposti. Donne che sembravano molto più fragili dei loro compagni hanno
rivelato una linea d’acciaio nel loro midollo.
Come se, nelle donne – che, almeno inconsciamente,
sanno tutte che dare la vita è immettere in un processo che, in natura, porta
alla morte – ci fosse una maggiore accoglienza alla quotidiana compresenza di
vita e morte e/o un di più di resistenza nel costruire e ricostruire vita, come
una forza (istintiva? soprannaturale?) a non darla vinta alla morte, a
scommettere sull’eternità dell’esistenza.
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