Mi
è capitato più d’una volta, anche recentemente, di leggere un bel libro
la cui ossatura è costituita dall’epistolario, talvolta ripreso com’è,
talaltra rielaborato ma in ogni caso autentico, dell’avo/a/i dell’autore, spesso dell’autrice, in questione: memoria di famiglia, custodita in uno dei cassettoni di casa.
Un genere di romanzo che io (e non solo) non potrei mai scrivere.
I miei avi non scrivevano diari, non si scambiavano lettere d’amore. Conoscevano aratri e telai, non carta e penna.
La
storia della Calabria povera ha un nucleo di silenzio: le parole dette e
pensate che non hanno avuto nessuna possibilità, oltre l’esaurirsi
della memoria orale, di superare il tempo.
Nel nostro ora c’è un allora muto, un incavo vuoto, culla o sepolcro, in cui una parola non scritta continua a dormire. Come, dalle mie parti, si diceva del pane appena impastato lasciato a lievitare: “mettere a letto”.
Eppure,
a risvegliarla, quella parola, anche solo per dirla a se stessi, ci
sarebbe una piccola luce a rischiarare un tempo che o viviamo con occhi
nuovi o ci scotolerà fuori dalla Storia, come briciole inutili accumulate sulla tovaglia del pranzo.
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