Lo speronamento
dell’Andrea Doria è la prima emozione
pubblica che ricordo di mio. E poi, in ordine sparso, quella sensazione di cappa addosso per la
storia dei missili, con più di uno che pronunciava con orrore la parola guerra.
E il dolore per l’eccidio di Kindù. E la faccia da nonno buono di Papa
Giovanni.
Ma lo
spartiacque vero tra l’infanzia dai pensieri lievi, dagli stupori immensi, e la
fatica del crescere fu, per me, il 22 novembre del 1963.
La notizia, a me
e ai miei, arrivò al telegiornale della sera: un bianco e nero che si raggrumò
di orrore.
Non che avessi
l’età per cogliere davvero i fatti, ma la sensazione era, in quel periodo – al
di là delle ansie e delle inquietudini di bambina che cresceva – quella che il
mondo fosse fondamentalmente buono, i problemi risolvibili: una casa
accogliente e sicura, con piccole, minute cose da aggiustare ma, appunto,
aggiustabili.
Dallas incrinò
la mia ingenuità nel guardare la storia. Cinque anni dopo, l’uccisione di Bob e
la repressione della primavera praghese mi insegnarono definitivamente che la
speranza deve fare costantemente i conti con la tragedia.
(La mattina del
23 successe una cosa che ancora mi sa di assurdo: sul pullman che mi portava a
scuola, un'attempata signora tenne una sorta di lunga conferenza stampa ad un
gruppone che le stava intorno, sostenendo che non era cosa di cui occuparsi,
tanto l’aveva fatto uccidere la moglie: un concionare sgraziato che è rimasto
nella mia mente come un monito a porre attenzione ad ogni bruttura che provi a
sporcare le tragedie più atroci o a frantumare l’epica nel ridicolo).
Abbiamo la stessa età, anch'io ero bambina non più piccola, ma il mio senso della sicurezza era stato minato nel '56, durante la rivoluzione ungherese. Mi colpì comunque il fatto che il presidente della nazione più importante del mondo occidentale potesse essere ucciso in strada. Dunque nulla e nessuno era veramente al sicuro.
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