Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d'altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l'Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,
dall'orlo estremo di qualche età
sepolta. Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno d'ogni moderno
a cercare i fratelli che non sono più.
Così Pasolini – di cui ricorre
oggi il 38° anniversario dell’uccisione – fa dire, nell’episodio La Ricotta del film RoGoPaG, al regista marxista impersonato da Orson Welles.
Ci sta molto in questi versi: l’ancoraggio
a quanto di più grande e bello ha trasmesso il passato, l’estraneità non al
presente tout court (che lui anzi, viveva da protagonista) ma alla sua volgarità
crescente, il rimpasto emozionale – ideologico che ribolliva continuamente nell’essere
del poeta-scrittore-saggista-regista.
Mi piace riprenderli oggi, Giorno
dei Morti.
E dei Vivi.
In questi versi, Maria, ciò che mi sembra emerga con impeto, è la fluidità della linea che separa la vita dalla morte.
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