Alle 16 in punto di un
pomeriggio di novembre, il presidente del consiglio apparve in tv a reti
unificate con volto adeguatamente mesto per annunciare che un’altra disgrazia
aveva colpito il paese: i nuovi fulminei decessi, che avevano riportato morte e
paura tra i cittadini erano determinati da un virus trasmesso dai gatti. La
situazione era potenzialmente tragica. Non avendo né mezzi, né tempo per
stabilire quali gatti fossero contaminanti e quali no, nel giro delle prossime
due settimane si sarebbe proceduto all’eliminazione di tutti i felini. Chi
avesse cercato di sottrarsi al Dpcm appena emanato, avrebbe rischiato il
carcere.
Anna viveva, da sola, con
gatta Sofia. Scese immediatamente al supermercato vicino casa, sperando che ancora
ignorassero le nuove norme, accaparrò quanto poté di croccantini e pietrine,
preparò due valigie, nascose il trasportino di Sofia in un borsone e si mise in
macchina. Non aveva mai guidato in autostrada. Le tremavano le gambe e le
mancava l’aria.
-
Sofia – disse – io non devo avere paura e
tu devi avere coraggio. Lo so che in macchina ti senti sempre male e vomiti,
ma, adesso, no. Devi stare buona tu e buona io: ce la dobbiamo fare.
Arrivarono in una casetta
di campagna, con un piccolo giardino intorno, che era notte. Sofia uscì dal suo
trasportino, fece pipì, mangiò, fece il giro della casa e si mise a dormire,
placida, su uno stuoino a forma di gatto. Anna organizzò la casa
come un bunker, andando a letto, per poche ore, solo all’alba. Si alzò, fece la
spesa per una quindicina di giorni e mandò alle sue amiche dei messaggi per
dire che, in quel frangente, preferiva restare sola, si sarebbe fatta sentire
lei. Nei giorni seguenti fece una buca in giardino per gettarci gli escrementi
di Sofia, per evitare ogni sospetto dei raccoglitori di spazzatura, e si
abituò, lei che amava il silenzio assoluto, a tenere sempre la musica un po’
alta a coprire eventuali miagolii.
Non avendo niente di
meglio da fare, tirò fuori un po’ di vecchi file: incipit mai portati avanti,
appunti di scrittura. In un mese, mise insieme un centocinquanta pagine che le
sembravano buone.
L’epidemia era intanto
finita, il paese si era salvato, e non c’erano più gatti. Sofia, che di anni ne
aveva quindici, sembrava vivere una seconda giovinezza: se già prima era amica
e sorella di Anna, ora era anche madre, figlia e ogni altra possibile figura d’affetto.
Sempre tra le braccia, o accanto al computer o a letto insieme a lei. Quieta,
divertente. Ma un brutto giorno si alzò barcollando, con gli occhi vitrei e,
qualche ora dopo, morì.
Anna avrebbe voluto
abbandonarsi al pianto, ma si disse che non era il momento. L’avvolse in un
panno rosa, la mise in una bella scatola e la seppellì in giardino. Sopra ci
piantò un alberello di profumata citronella. Inviò le pagine ad un’amica
che le inviò ad un amico editor. Per uno di quegli eventi che rarissimamente
capitano nella nostra asfittica editoria, il libro venne pubblicato.
Incredibilmente per Anna, finì tra i cinquanta candidati dello Strega, poi
nella dozzina, poi nella cinquina. Infine, vinse.
La fatica più grande, per
Anna, fu decidere la dedica. A Sofia, amata gatta; A Sofia, compagna della mia
vita; A Sofia, sorella ed amica. Non le piacque nessuna. Si risolse a limitarsi
in a “A Sofia”: due parole per un tutto.
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