Il professor
Flesherman, criminologo di fama internazionale, riceve un invito per una
consulenza su quella che appare una grande scoperta: il casuale ritrovamento
del vero corpo di Rosa Luxemburg. Gli è stata appena diagnosticata una forma incipiente
di demenza, ma questo inatteso lavoro lo incuriosisce e sembra fargli tornare
forze e capacità che si erano assottigliate. Decide, quindi, con il consenso
della moglie, di partire. Una volta a Berlino viene coinvolto in una sorta di
giallo: la scomparsa del notissimo scrittore Hagenbach. Dopo aver inviato
decine di lettere alla moglie Dora, ricoverata in clinica per una forma grave
di demenza senile, cadute ormai le speranze di una sua guarigione, Hagenbach ha
fatto perdere le sue tracce e qualcuno teme possa essersi ucciso.
Flesherman legge le
lettere che Hagenbach aveva scritto alla moglie e le vive come rivolte
direttamente per lui. Lascia, perciò, Berlino per recarsi nella cittadina dove
lo scrittore, da lui tanto amato, aveva incontrato per la prima volta Dora,
convinto che lì abbia trovato rifugio.
È un cammino che lo
porta dentro se stesso, dentro i pensieri che si stanno scomponendo, sempre in
bilico tra la realtà del presente e l’immaginazione che smonta e rimonta
reperti del passato. In quel frantumarsi di specchi che via via diventa il suo
cervello, il criminologo inventatosi detective per allontanare da se la
demenza, si inoltra in una sorta di baldanzosa e rassegnata sfida.
Intriso di cultura
mitteleuropea, da Thomas Mann a Kafka a Kierkegaard e di un dolore che sembra
affondare nella mai citata terra d’origine, Lettere
alla moglie di Hagenbach del cosentino Giuseppe Aloe, edito da Rubbettino,
è un libro dalla scrittura raffinata e potente, capace di affrontare a viso
aperto una tematica forte come quella della progressiva dissoluzione del
pensiero così come articolato fino a quel momento e della sua transizione non
semplicemente al buio e al vuoto, ma ad una forma diversa, zigzagante tra lucidità
e delirio, di rapportarsi a se stessi e al mondo.
Infastidito da un
immedicabile sapore di sonno in bocca, Flesherman si sente come «su un’asse di
legno e non mi posso muovere. Devo resistere a tutto. Alla fame, al sonno, alla
voglia di alzarmi. Sono in ginocchio su un’asse e vedo sotto di me migliaia di
topi grandi come mastini che non aspettano altro che un colpo di sonno o una
debolezza per azzannarmi alla gola.» Gli sembra «di essere diventato un deserto. Anche il
sangue si era fatto di sabbia. E i pensieri. Pensavo sabbia. Nella testa avevo
un continente sabbioso. Un continente che aveva preso la deriva e scivolava.»
Parla con i cartelli pubblicitari. Gli sembra di
essere l’amico immaginario del protagonista della Metamorfosi, anche se
preferirebbe essere amico non di Gregor Samsa, ma di sua sorella. Su un treno
crede di vedere una sua vecchia fiamma, Odette, e le rivolge frasi per cui la
donna, giustamente, lo considera un molestatore. Ha una storia, poco in linea
con tutta la sua vita, con una ragazza colta e bella, che utilizza il suo
fascino per recuperare denaro, prostituendosi. E si mette a scrivere lettere a
se stesso: «A un me stesso perduto chissà dove. Un argonauta in fondo all’oceano
che se ne sta in piedi in mezzo alle alghe. Una specie di pupazzo di stoffa,
con i capelli finti e il sorriso stampato sulla faccia rotonda, le braccia
mobili, come i tentacoli di una seppia. Avvolto nella carta stagnola, buttato
in qualche pozzo, in mezzo alle campagne.» Fino a trovare una forma di
accettazione: «È
come se un grande oceano mi fosse entrato nel petto. Lo sento che si muove. Un
movimento placido come quello delle balene. Mi confonde. La grande indifferenza
del capodoglio. Un oceano pacifico. Smisurato e tranquillo. Ma niente abissi.
Niente profondità abissali. Solo superficie. Un oceano di superficie.»
Giuseppe Aloe usa la penna come un coltello
lucido e tagliente, che va al cuore di una domanda che attraversa tutto il
libro, anche se non è mai esplicitamente posta: l’essenza dell’uomo, nel cui
nucleo sono compresi gioia e dolore, fame e disagio di vita, sta solo nel
pensiero che consideriamo articolato e logico?
All’inizio del testo, prima ancora che la
malattia prenda una sensibile accelerata, il protagonista, che parla sempre in
prima persona, afferma: «Una volta ero Flesherman.
Per la verità lo sono ancora.» Resta a chi legge la risposta se lo è
pure alla fine del racconto.
Qualunque sia la risposta, il lettore sarà lieto
d’averlo incontrato e grato all’autore per questo libro.
Su Zoomsud è stata pubblicata anche la recensione de La teda di Saverio Strati:
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