venerdì 10 luglio 2020

Una ragazza del '52






Sono nata nel 1952, e non è un dettaglio trascurabile. Insieme a quelle nate appena qualche anno prima o qualche anno dopo di me, faccio parte della generazione che ha vissuto i maggiori cambiamenti riguardanti le donne intercorsi in secoli e secoli di storia. Nei primi anni della nostra vita, buona parte, se non la totalità di noi, è stata educata secondo tradizione. Poi, abbiamo vissuto enormi trasformazioni. Nel 1963 nacque la scuola media unificata e, con l’obbligo scolastico, anche le ragazze (tutte) cominciarono a frequentare i primi otto anni di istruzione, seguiti, per molte di noi, dalla scuola superiore e dall’università. All’inizio del 1966 la mai abbastanza celebrata Franca Viola rifiutò il matrimonio riparatore. Nel 1974 arrivò la legge sul divorzio, nel 1975 il nuovo diritto di famiglia, nel 1978 la legge sull’aborto. Negli stessi anni, vi fu un pullulare di collettivi femministi, la prima diffusione della pillola contraccettiva, il primo inserimento relativamente di massa di donne in lavori considerati fino ad allora solo maschili (ma anche in attività come guidare una macchina). Abbiamo vissuto – chi perché l’ha precorso e cercato, chi perché l’ha fortemente voluto, chi perché in quel tempo si è ritrovata grande – un cambiamento epocale. Sapevo di essere dentro la storia in un punto di mutamento. 

Se dovessi selezionare un’immagine di me alla fine degli anni Settanta, mi vedrei in movimento. (Ho conservato, nella mente, un frammento in cui ballo. Meglio: saltello. Un otto marzo, un gruppetto di donne, a piazza Plebiscito. Età diverse, tutte con zoccoloni – io ne avevo un paio neri, pesanti, che, a metterci i piedi dentro adesso mi verrebbero subito i calli – camicioni o gonne larghe e capelli arruffati.) Al mattino, lentamente, risalivo via Chiaia, da piazza Vittoria dove mi lasciava il pullman, a via Cervantes – l’aria fresca che entrava nei polmoni e le voci dei Quartieri mescolate all’odore di caffè. (Era stato proprio a via Chiaia che dalle radio aperte nelle case avevo sentito, inorridita e incredula, del rapimento Moro, della strage della scorta). Sul mezzogiorno, con l’aria più calda, magari afosa, a passo spedito percorrevo Corso Umberto. La prima parte della giornata e anche alcune ore del pomeriggio le passavo nella redazione napoletana dell’Unità. Scrivevo, senza nessun contratto né soldi, e mi sentivo dentro una comunità. Non senza contraddizioni: faccio parte di quel piccolo nucleo di persone che, per le più svariate circostanze, sono state cattoliche e con la tessera del PCI: io come sforzo di unificare mia madre e mio padre, di non confliggere con nessuno di loro: e il prezzo non è stato di poco conto. Vissi come una conquista ottenere il tesserino di pubblicista. Arrivò, per posta, lo stesso giorno in cui, tornati da un viaggio, mio marito ed io ci trovammo la casa svaligiata e la conseguente perdita di oggetti che, al ladro, non avrebbero reso niente e a me tolto un pezzetto di cuore. Non piansi per qualche oggetto di valore, in fondo ricomprabile, ma per un cerchietto d’oro di qualche milligrammo che nonno e bisnonno di mia madre avevano portato all’orecchio – segno del passaggio saraceno sulle nostre coste – e per due anellini smaltati, che erano stati delle bisnonne. Al piano di sopra dell’Unità, c’era la redazione della Voce della Campania. Nell’uno e nell’altro caso, il direttore e la maggior parte dei redattori erano uomini, ma non mancavano donne di qualità: Eleonora Puntillo, Marcella Ciarnelli, Maria Roccasalva, all’Unità, e Patrizia Capua, Iaia Caputo e Daniela De Crescenzo alla Voce, ognuna delle quali ha avuto e/o ha una parte nella mia vita. A casa di Patrizia, scoprii che i fagioli non esistevano solo nella forma brodosa calabrese, ma in quella azzeccata dei napoletani e, sebbene siano passati decenni, non mi è mai più capitato di mangiare un babà come il suo (comprato). Per la Voce feci dei reportage sulle donne che lavoravano in fabbrica in Campania. Non ho traccia di quelle interviste – mi ricordo qualche faccia, ma soprattutto la vitalità di quelle operaie – che, oggi, potrebbero costituire frammenti per ricostruire la nostra storia collettiva.

Nelle ore centrali della giornata – quelle delle riunioni di redazione che mi erano precluse – andavo all’Archivio di Stato. Non so quanto e se è cambiato, non ci ho più rimesso piede, ma, allora, era tutto polvere e confusione. La maggior parte del materiale l’ho trovata in una sorta di sottoscala, buttata lì, senza ordine e senza controllo. Avevo comprato una lente d’ingrandimento professionale per poter decifrare i segni minuti dei notai del Settecento e mi pareva che ogni piccola frase che trascrivevo sui miei quaderni fosse una conquista. Se non andavo all’Archivio stavo alla Biblioteca Nazionale, dove il silenzio era, per me, appena inframmezzato dal girare i foglioni delle Prammatiche sanzioni. (Ce ne saranno già tanti sicuramente, ma se ne potrebbero fare all’infinito di studi sulle leggi del nostro paese: una costante di grida di manzoniana memoria). Anche lì, si trattava di copiare, copiare, copiare. In qualche modo, anche quello era un tempo sospeso tra un prima e un dopo (il tempo sospeso è diventato una dimensione collettiva con la pandemia da Covid 19, ma per tutti ci sono personali tempi sospesi; io ne ho conosciuto più di uno). Non so se ci credessi più davvero o se mi concedevo nuovo tempo, come un gioco da continuare, ma ancora provavo a far diventare mia una delle due strade che avevo sognato di percorrere: o il giornalismo o la ricerca storica. E, come tema della mia tesi di perfezionamento, avevo scelto le doti nuziali a Napoli nel Settecento.

Per la tesi di laurea, avrei voluto lavorare sulla prima fase della colonizzazione dell’Africa, ma la mia idea era stata cassata. Alla cattedra di Storia Moderna dell’Università di Messina c’era, allora, Paolo Alatri, ma fino a pochi anni prima c’era stato Rosario Villari, il cui magistero continuava ad aleggiare anche attraverso i suoi assistenti, ora assistenti del suo successore. Io venivo seguita dal barone Mantica (barone di nascita), che mi propose un lavoro, in realtà, di Storia Contemporanea: il movimento dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini. E fu proprio Rosario Villari – che tante volte avevo incontrato nella villa di Mantica e che tante volte era e sarebbe venuto a casa mia – a stilare lo schema del mio lavoro. Al Cordon Bleu – dove mi aveva offerto dello champagne, che barattai con un gelato – mi tenne una lezione di storia, di ricerca storica, che continuo a considerare quella fondamentale ricevuta nella mia vita. Ma come, dove, avrei trovato i giornali d’epoca? Feci delle ricerche, soprattutto all’Istituto Gramsci a Roma – che resterà associato, nella mia mente, all’odore delle caldarroste che si spandeva nelle strade adiacenti – ma la stragrande mole di documenti la trovai a pochi passi da casa mia. I Martorano – pensò mia madre, che stimava l’intera famiglia ed era legata soprattutto alle donne di casa – leggevano tanto, forse hanno qualcosa. Scoprii che avevano conservato un patrimonio in giornali del primo dopoguerra. Dal Popolo all’Unità, e – cosa miracolosa per me – pressoché l’intera collezione dell’Uomo Qualunque. Mi permisero di portare tutto a casa mia in uno scatolone enorme, che aveva contenuto una termocoperta, comprata per la mia dote. (Restituii tutto, appena finito). Fu un lavoro entusiasmante. Ma, per il perfezionamento, volevo scegliere io.

Volevo studiare di donne e di donne nel Settecento, epoca per cui, un quarantennio fa, avevo molto interesse. Andai a parlarne, alla Federico II, col professor Villani che, gentilmente, mi rinviò alla Sapienza. A Roma, secondo la lettera del mio cognome, il mio possibile professore era Vittorio Emanuele Giuntella. Fu molto cortese. Disse che non sapeva nulla dell’argomento, e che non avrebbe, perciò, potuto darmi indicazioni di lavoro. Sarei stata sola nella mia ricerca. Ma, lui, avrebbe avuto piacere se me ne fossi occupata. (Dopo la discussione della tesi, mi inviò una bellissima lettera per ringraziarmi di avergli aperto un mondo: segno di uno studioso e, soprattutto, di un uomo di grandissimo spessore). Non avevo reti di protezione, ma mi si diceva: Vai.

Se volevo analizzare la realtà delle donne napoletane del Settecento, occuparmi dei contratti matrimoniali era una scelta obbligata. Nella pressoché totale assenza di altri documenti riguardanti la vita delle donne, erano, infatti, molto numerosi, presso l’Archivio di Stato di Napoli, i contratti nuziali e, alla Biblioteca Nazionale, erano rintracciabili le leggi che regolavano il matrimonio nonché un’esauriente raccolta delle discussioni dei giuristi, costituita dai dieci volumi della Iurisprudentia forensis di Giuseppe Sorge. Poiché il matrimonio era l’unico spazio esistenziale della stragrande parte delle donne, le regole che lo governavano erano, in ultima analisi, le regole che governavano le loro vite e segnavano i limiti della loro presenza nella società. I contratti non davano conto della realtà quotidiana del matrimonio e di aspetti importanti per un’analisi complessiva della condizione della donna nella famiglia, quali, ad esempio, i modi in cui si esercitava l’autorità maritale; l’incidenza che la moglie aveva nelle scelte familiari; la sua eventuale partecipazione al lavoro del marito; il suo ruolo nell’educazione dei figli. Pur con queste lacune, i contratti permettevano, però, di delineare alcuni dei punti fermi all’interno dei quali si concretizzava, in tutta la sua pienezza e in tutte le sue articolazioni, la complessiva condizione femminile nella famiglia e nella società.

Mentre bazzicavo giornali e giornalisti, scrivevo di cronaca (quello che capitava), facevo amicizia con alcune donne, che esprimevano tutte una carica di nuovo protagonismo (Gloria Chianese faceva ricerca storica), e i miei pensieri si fissavano sulla Calabria lasciata e su una maternità sognata, cominciai a passare ore e ore tra l’Archivio e la Nazionale, analizzando, da una parte, le leggi e le consuetudini del matrimonio nel Settecento e, dall’altra, i contratti matrimoniali veri e propri. Facendo i conti con l’approssimativo latino dei testi d’epoca e leggendo tutto quello che di attinente era stato pubblicato altrove, in Francia in particolare. E sentendomi tre volte viva: la mia storia, la storia delle mie ave su cui non c’era traccia scritta ma che pure avevano vissuto simili esperienze, la storia delle donne in generale: era un unico respiro vitale.

Alla Nazionale scoprii che le donne non erano molto presenti nella legislazione napoletana di epoca spagnola (fino al 1707), austriaca (fino al 1738) o borbonica (dopo il 1738) che fosse. Abbondavano, però, nelle prammatiche “De meretricibus”, sette delle quali promulgate tra l’aprile del 1470 e il novembre del 1593 ed undici susseguitesi tra l’agosto del 1610 e il settembre del 1745. Un fenomeno, quello delle “meretrici”, che i vari governanti non volevano né in tutto né in parte “eliminare”, ma solo “restringere” in certi, determinati quartieri, in maniera tale che, con “il minor danno che possono al Pubblico, con la dissolutezza del loro infame mestiere”, potessero, in definitiva, continuare ad esercitarlo. Delle altre donne – di quelle, per così dire, “normali” e non “dissolute” – la legislazione si occupava solo in quanto “mogli”. Il matrimonio si poteva celebrare solo con il consenso del padre o di chi ne faceva le veci. Consenso del padre che, nella prassi, doveva piuttosto essere il consenso o comunque l’acquiescenza della figlia (e, presumibilmente, anche se in maniera meno marcata, del figlio) alla volontà e alla scelta paterna. Senza l’espresso consenso, il padre aveva il diritto di privare dell’eredità il figlio e la figlia, a meno che il primo non avesse compiuto i trenta anni e la seconda i venticinque. Se il maschio, a trenta anni, poteva essere considerato sufficientemente maturo per non compiere scelte avventate, la femmina, a venticinque, era alle soglie della vecchiaia ed era opportuno evitare che, per avarizia del padre nel darle la dote, rimanesse zitella.

Scoprii che, nel Settecento, era ancora in uso la Novella do Ruggiero, promulgata dal re normanno nel 1150, secondo cui “se i figli fossero tre, due maschi e una femina, questa sulla terza parte dovuta ai figli tutti, potesse prendere una terza parte, né più altro pretendere, quando morto il padre, le due terze parti a costui riservate, ricadevano in beneficio dei fratelli. Sicché alla donna in tutto era riserbata una quota eguale alla nona parte dell’eredità”. Poiché la quota riservata alla donna era troppo bassa perché ella riuscisse a sposare un uomo di pari condizione sociale, nasceva la necessità di una dote “congrua”, o, più precisamente, “di paragio”. Il “paragio” non era determinato in maniera specifica, ma veniva identificato con la quantità di dote necessaria alla donna per contrarre nozze secondo il suo livello sociale. Era, comunque, il padre a deciderne l’entità ed era suo diritto essere più prodigo nei confronti di una figlia rispetto ad un’altra.

Ogni piccola nota mi rendeva felice – in fondo, non era semplicissimo andare a scovare nei libroni della Nazionale le pagine dedicate ai matrimoni – ma non era davvero una novità. Anche nella mia esperienza di racconti familiari e amicali, sapevo bene che le donne, in quasi tutte le famiglie, continuavano ad ereditare meno che gli uomini. Tutto ciò che trovai sull’antefato, mi sembrò, invece, una scoperta vera: il valore economico della verginità, la “prostituzione” al marito dell’illibatezza mi portavano in un mondo che mi appariva, insieme, profondamente diverso, eppure non del tutto, da quello in cui vivevo. La prima volta che avevo messo piede in un collettivo femminista era stato perché inviata da Rocco Di Blasi, che allora dirigeva l’Unità napoletana. Tornai, gli raccontai e la cosa che mi sorprese di più fu la sua reazione. Era contento, quasi eccitato, per le novità che emergevano. A me, con non poca ingenuità, sembrò che non capisse che, se quell’onda fosse diventata piena, anche il mondo che considerava suo, il suo partito, sarebbero stati spazzati via. Nei collettivi, nei consultori, emergevano rabbie e solitudini: tutta un’energia compressa che cercava sbocchi. La sensazione era quella di tappi di bottiglia che saltavano. E, a fuoruscire, non era solo champagne.

L’antefato era una forma di donazione del marito alla moglie. Il valore economico di tale donazione, come espresso nella prammatica del 30 dicembre 1617, emanata dal duca di Ossum, non dipendeva dalla disponibilità dei beni del marito bensì dalla quantità di quelli portati in dote dalla moglie. Il dibattito tra i giuristi chiariva come la donna potesse lucrare l’antefato solo se la dote promessa in suo favore fosse stata realmente conferita al marito. L’antefato andava concesso per intero anche se solo una parte della dote era stata consegnata quando il matrimonio si scioglieva prima del tempo fissato per la consegna. Era lucrato dalla donna anche nel caso che al marito si potesse imputare di non aver convenientemente agito per ottenere tutta la dote ed era dovuto anche in assenza di dote “quia matrimonium potest esse sine dote” (perché il matrimonio può essere senza dote). Dell’antefato, la donna possedeva solo l’usufrutto; la proprietà, se sopravviveva al marito, tornava, in mancanza di figli, agli eredi di lui. In presenza di figli erano loro a possedere la proprietà dell’antefato. Si precisava in tutti i capitoli matrimoniali che, nella proprietà dell’antefato, i figli succedevano in quanto figli e non in quanto eredi del padre: a meno di specifici e rari ulteriori chiarimenti, per figli s’intendevano solo i maschi. Nel caso, però, che il marito avesse ucciso la moglie, l’antefato andava agli eredi di lei. Le discussioni dei giuristi e la casistica esplicitavano il motivo di fondo dell’antefato: che, se si riferiva al valore della dote, aveva però la sua prima radice ed il suo fondamento nella verginità della sposa. Una verginità su cui si basava tutto il contratto matrimoniale, che cominciava sempre col definire la donna di cui si trattava “vergine in capillis” (vergine che ancora portava i capelli scoperti). «Et si attendatur praescriptum a legibus, antefatum, sive donatio propter nuptias non debetur pro dote, sed ab omissam pudicitiam… dicta donatio propter nuptias assignatur mulieri in recompensam amissae pudicitiae… huic donationi dedit nomen ‘pretium sanguinis mulieris’… dum est dictum hoc antefatum, seu arras deberi in detrimentum amissae verginitatis… illud, quod prima nocte datur. Ex quo oritur quod si mulier fuerit deosculata e suo viro acquirit medietatem antefati… quia osculum est actus carnis». (e se si osserva prescritto dalle leggi, l’antefato, oppure la donazione per le nozze non si deve in ricompensa per la dote, bensì per la perdita di pudicizia... la suddetta donazione per le nozze è assegnata alla moglie in ricompensa per la perdita di pudicizia... alla quale donazione si diede il nome “prezzo del sangue della moglie”... dunque è detto questo antefato, oppure caparra che si deve in danno della perduta verginità... ovvero quello che si dà la prima notte di nozze. Da qui deriva che se la moglie è stata baciata appassionatamente da suo marito acquisisce la mezza parte dell’antefato... perché il bacio è atto carnale). L’antefato non veniva lucrato «quo dilla sit virgo, aut pudica, sed quia pudicitiam suam viro prostituit, pudorenque patitur, tradens corpus viro». (perché colei sia vergine, o pudica, ma perché ha venduto la sua pudicizia al marito, e ne soffre il pudore, concedendo il corpo al marito). Perciò «antefatum non sequiri mulieri, nisi sequuta fuerit copulam…mulierem non lucrari antefatum, etiam si matrimonium fuerit contractum per verba de presenti, et copula carnalis non fuerit sequuta inter coniuges nec osculum intervenerit, per mortem naturalem, vel ingressum religionis, matrimonium solvatur…antefatum non habeat locum quando copula non fuerit sequuta, nec consumatum matrimonium…quod uxor dicitur illa cum qua matrimonium sit consumatum, ac illa cum qua contracta sunt sponsalia etiam de presenti dicitur sponsa». (l’antefato non spetta alla moglie, se non in seguito alla copula... l’antefato non è lucrato dalla moglie se il matrimonio è contratto in modo verbale dai presenti, e non segue la copula carnale o un bacio tra i coniugi, prima che il matrimonio sia sciolto dalla morte naturale o dall’ingresso in religione... l’antefato non ha luogo quando non segue la copula o il matrimonio non è consumato... perché si chiama moglie colei con cui sia stato consumato il matrimonio, mentre colei con cui sono contratti gli sponsali davanti ai testimoni è detta sposa). La verginità e la sua “prostituzione” al marito, aveva un tale rilievo economico che la vedova, passata a seconde nozze, riceveva solo la metà dell’antefato che avrebbe ottenuto se vergine. Anche nel caso della vedova, numerosissime erano le annotazioni dei giuristi: vedova doveva essere considerata solo colei che era stata davvero “uxor” di un uomo, se ne era stata solo “sponsa” aveva gli stessi diritti della “virgo”. Poiché colei il cui marito era morto prima che il matrimonio fosse consumato doveva essere considerata vergine. Nella mai sposata come nella “falsa” vedova, la verginità doveva essere “vera”: «Mulier finges se esse virginem, cum sit deflorat… deduci antefatum non deberi huic mulieri, cum cessent in hoc causa, ac onus, ex qua possit illud acquirere». (la donna finge di essere vergine, ma è stata deflorata... ne deriva che l’antefato non spetti a quella donna, che cessi in quel rispetto, ovvero in quell’onere, dal quale lo può acquisire).

Della verginità della donna non si era mai abbastanza sicuri e i giuristi concordavano che mai si doveva credere che lo fosse una ragazza che, per difendersi, affermava di essere stata violentata. La legge ammetteva il “divortium”, più sulla base di consuetudini stratificate nel tempo che di specifiche norme. Veniva concesso in caso di adulterio, sia all’uomo che alla donna, ma i due non erano uguali di fronte alla legge: “Vir uxoratus, solutum carnaliter cognoscendo, adulterio minime committat”. (l’uomo sposato, ben conoscendo i piaceri della carne, commette un adulterio minimo).

Il caso di “divortium” espressamente riservato alla donna era quello della “atroce” violenza fisica del marito: caso che doveva essere abbastanza frequente a giudicare dalla mole di interventi su questo tema dei giuristi. Si doveva trattare, i giuristi lo precisavano, di una violenza “non piccola”, anzi addirittura “quasi mortale”: l’uomo aveva, infatti, il diritto di picchiare di tanto in tanto la moglie, per “correggerne” i costumi. Per la donna, “divortium” si identificava con convento, almeno per tutta la fase, non breve, della “discussione” della causa; dopo che la sentenza di “scioglimento” veniva formulata, poteva tornare in casa dei suoi genitori o entrare nell’abitazione di un’onesta donna.

Stavo bene tra i libroni della Nazionale, ma l’Archivio era un’altra cosa. Non dissimile da una vera e propria avventura. Spulciavo pergamene, non catalogate, e copiavo, copiavo. Nella Napoli del Settecento i matrimoni, di tutte le classi sociali, erano accompagnati, in genere preceduti, meno spesso seguiti, da un contratto, redatto da notaio, con il quale le parti s’accordavano sulla consistenza della dote e veniva stabilito l’antefato. Ogni minuta informazione che, letta e, spesso, interpretata con difficoltà con la lente d’ingrandimento, riuscivo a trascrivere nei miei quaderni, era il passo avanti dell’esploratore di una valle sconosciuta.

Consultai 170 contratti matrimoniali, cercando di rispettare tre criteri. Il primo – focalizzare l’attenzione su tutto il primo cinquantennio del secolo – mi permise di ricontrare che in quel periodo non era intervenuta alcuna modifica non solo per quanto riguardava la condizione della donna, ma addirittura per quanto concerneva la consistenza della dote. Segno del permanere, pur in una fase economicamente abbastanza favorevole, della sostanziale immobilità di una società incapace di mettere in moto alcun meccanismo di profondo rinnovamento. Il secondo – tener conto di tutte le classi sociali, con particolare attenzione, però, alle classi definibili come “medie” – mi consenti di ricostruire, per quanto possibile, la condizione più comune delle donne in una società non ricca, in cui beni di consumo apparivano limitati. Il terzo criterio era comparare la realtà della città di Napoli con quella di alcuni paesi e cittadine dei dintorni, per registrare eventuali diversità. Oltre Napoli (cui si riferivano metà dei contratti consultati) presi in esame: Castellammare, Lettere, S. Giorgio a Cremano, Afragola, Aversa, Airola, Casal Basci, Casal Panicolo, Casal Mugnano, Casal di Bosco, Casal di Miano, Capri, Gaeta, Giugliano, Gragnano, Marano. Al di là di piccole differenze, la condizione della donna emergeva, dai contratti matrimoniali, sostanzialmente uniforme. A meno che non fosse orfana, senza che nessuno esercitasse su di lei la patria potestà, o vedova, non era soggetto, ma oggetto del diritto. Era il padre – accompagnato talvolta del primogenito o da tutti i figli maschi, e molto raramente dalla consorte – a concludere il contratto col futuro marito che, al contrario, “interviene per sé”, solo in pochi casi accompagnato dal padre, col cui “consenso” agiva, o dal fratello. Il patrimonio non rappresentava, per la donna, una forma o una possibilità di emancipazione ma piuttosto e solo il passaggio da un’autorità ad un’altra: “tradotta sarà in suo potere”, diceva un contratto e, anche se la formula era in genere mitigata in “la condurrà nella sua casa”, la sostanza non sembrava mutare. Era il marito e non lei a ricevere la sua dote, compresi oggetti personali. Era ancora il marito a promettere “tutte le doti bene e diligentemente tenere, custodire, conservare e fare salve sopra tutti i suoi beni mobili e stabili”. Ed era sempre lui che avrebbe potuto investire il denaro dotale col “consenso scritto” del padre e dei fratelli di lei, ma senza neppure il parere di quella che avrebbe dovuto essere la diretta interessata. Della sua dote la donna aveva il diritto di usare solo la parte, in genere piccola, di cui poteva “testare”, il resto era del marito e, in ultima analisi, del padre e dei suoi fratelli, ai quali la dote tornava in caso di “scioglimento” del matrimonio e che la riutilizzano, talvolta, per dotare altre sorelle. 

La dote-tipo si componeva, dovunque, di tre parti: una in denaro contante, che poteva parzialmente derivare dai “maritaggi”, ovvero dalle donazioni dei vari Monti di pietà; una di “beni mobili”, che, nel linguaggio notarile indicava appezzamenti di terreno e/o case e oggetti per la casa; e una infine di corredo. A questo nucleo centrale si poteva aggiungere una lista di “robbe” formata da biancheria, oggetti da arredamento ed anche gioielli. Mi piaceva leggere quegli elenchi, molto sobri in fondo e che s’addentravano spesso in minutaglie. Anche se non andavo a cercarne il preciso significato mi bastava il suono delle parole per avvertire tra le mie mani la consistenza delle sete, la morbidezza dei cotoni, il ruvido dei canovacci da cucina, ad apprezzare le sfumature degli orditi e dei colori.
Trentacinque dei contratti schedati riportavano il mestiere del padre e del marito della sposa o almeno di uno dei due. Si trattava di calzolai; legnatari; maniscalchi; pizzicaroli; bottegari; carrozzieri; fruttaioli; tessitori; legatori librari; cusitori; tornieri; orefici. C’erano anche una serva, dotata dal padrone, e un marinaio. Il contratto sottoscritto il 12 settembre 1706, a Napoli, tra Antonio Niccolò e Domenico Caccanale è, nella sua estrema semplicità, il tipico contratto matrimoniale degli artigiani. «Il detto Domenico promette di dare e consegnare per le doti di detta Giustina, ducati centoventiquattro in questo modo: ventiquattro spettanti a Giustina dalla Venerabile Cappella dei Santi Pietro e Paolo dell’Ortolani come figlia di Antonio, costruita dentro la venerabile chiesa di Santa Maria della Scala; altri trentasette in contanti, che Domenico dichiara di aver ricevuto in moneta d’argento numerata in nostra presenza; altri trentadue in panni e biancheria stimata da due esperti, e per i restanti trentuno, Antonio consegna a Domenico due fila di senacoli d’oro numero cento e due con un giallo ad un filo, con cinque piccole perle, un paio di anelletti alla genovese, smaltati con sette perle per ciascheduno, similmente apprezzati».

La consistenza della dote media, si aggirava, per gli artigiani, tra i 120 e i 200 ducati. Quando il denaro era promesso ma il pagamento rinviato nel tempo, veniva pagato con un interesse annuo quasi sempre del 5%, ipotecando una casa o una masseria. Al contrario, solo in pochissimi casi si diceva espressamente che il denaro contante andava deposto in pubblici banchi e utilizzato per acquisti di terreni. Così nel contratto stipulato, a Napoli, tra i maestri artigiani Salvatore e Antonio Flogni, fratelli della sposa e il sartore Pietro Antonio Licimone, si stabiliva che dei 250 ducati promessi, 50 sarebbero stati pagati in oggetti d’oro e «per i restanti ducati duecento, Salvatore e Antonio hanno promesso di pagarli nello spazio di un anno e mezzo dal giorno della contrattazione del matrimonio, liberi espliciti e senza vincolo né condizione alcuna, e frattanto senza interesse alcuno. E a maggior cautela e sicurtà del detto Mme Pietro Antonio, pendente il pagamento dei 200 ducati. Salvatore e Antonio hanno ipotecato, a beneficio di Pietro Antonio, una loro casa consistente in due camere e due bassi, con giardino, della capacità di tre quarti di moggio in circa sita e posta fuori porta Medina e propriamente a Santa Maria de’ Monti dei padri conventuali di S. Francesco». Non mancavano contratti in cui il denaro proveniva solo da maritaggi. L’orefice Francesco della Ragione, in un contratto concluso a Napoli il 27 maggio 1740, prometteva al genero Andrea Sellitto, anche lui orefice, «ducati 125: venticinque provenienti dal Pio Monte degli orefici; 50 del Pio Monte della Madonna dei poveri vergognosi, in virtù di un albarano dei governatori del monte dell’agosto 1739; e venticinque dal Pio Monte della Misericordia in virtù di un lascito della principessa di Bitetta. In appena due o tre casi il denaro contante era del tutto assente. La dote di Orsola Veneranda Ugliano secondo il contratto era costituita solo tutta di oro lavorato e biancheria. E precisamente: “ducati 93 in oro lavorato nel seguente modo: un lazzetto d’oro per d.28; un altro lazzetto piccolo d’oro, d.16; un canacino (…) con la sua mocca d’oro con pietre di rubbini d.18; un paio d’orecchini d’oro con rubini e perle più piccole d.10; un anello con pietre di rubini d.1; un rosario di granatelle e senacoli d’oro con medaglia piccola d’argento d.2: apprezzati da comuni esperti per d.93. per altri ducati 90, Giochino ha assegnato le cose seguenti: due materassi pieni di lana, con fodere di cocitrigno rigati nuovi per d.6; un’altra coperta di bombace fioccata d.6; due vesti di donna, una di stamina turchese e l’altra di durante d.9; una gonnella di saia scarlatina con pezzillo d’argento d.6; un’altra gonnella di durante d.2; un busto coperto d’arnesino color santonicola guarnito con pezzilli e zaini d’oro d.3; nove camise di donna, una di Bruzzolino con pezzilli e le altre otto con i corpi di tela e i petti d’orletta con pezzilli d.9; un lenzuolo d’orletta con pezzilli d.5. 2.10; cinque lenzuola nuove, due di lino e altre tre di canapa d.6 2.50; quattro faccie di cuscini d’orlettone nuovi d.2.2.50; una tovaglia d’orlettone nuova con pezzilli d.1.2.10; un mantesino di novellino fioraro bianco nuovo d.3.2; uno scollino di tela d’Olanda con pezzilli nuovo d.1; una cortina di tela bianca usata con tornaletto, ferri e cornice lavorata d.7; in tutti d.90».

Il corredo – anche se vi era sempre compreso qualche oggetto d’oro – non era mai molto ricco e la biancheria si limitava, in genere, a qualche gonnella e a qualche mantellino per la sposa e a qualche materasso per la casa. La “nota dei beni corredali” di Rachele de Lillo, figlia di un mastro ricamatore e moglie di un pubblico negoziante, secondo il contratto del 23 maggio 1754, comprendeva: «per canne sei e mezzo di amover color verde; per andrié color paglia usata; un’altra andrié color cenerino, anche usata; una gonnellina di borattino nuova; per un cantuscio (…) di amover color giallo usato; un cocitrigno di panno color cenerino con  (…) d’argento, usato; un paio di fibbie d’argento; un ditale d’argento; due para di bottoncini per li polsi d’argento; un bacello nuovo di vacchetta di palmi cinque; camicie oprate; mantesini, calze, manicotti, scuffie, manticchi; ventagli, moccature per le spalle e una pettiglia di fettuccia d’argento. In tutto le robe sono state valutate per d. sessantasei”. E i beni  corredali di Orsola Veneranda Ugliano erano costituiti da “un mesale a pepariello nuovo; otto salvietti pure nuovi a pepariello in pezza; otto faccie di cuscini grandi e piccoli; quatro di lino e quattro di tela di Persia pieni di lana; un guardapiede di lanetta nuova; un tocchetto di tela di Persia usato; un corpetto d’armesino color giallo con zaini e zacarelle di seta; due mantesini, uno di trobante (…) e l’altro di velo fiorato; tre paia di calzette e due di gottoncino e l’altro di capisciola usato; un muccaturo d’orletta con pezzilli nuovo; un paro di guanti di seta torchina usato; una spatella d’argento e una ficarella anche d’argento; due paia di bottoni d’argento; un paio di fibie d’argento; due paia di scarpe da donna, uno con galloni d’oro, l’altro semplice e uno scollino di morellino bianco ricamato».

Non solo i maritaggi ed il denaro contante e i beni dati in oro andavano direttamente al marito, ma anche i beni corredali, quelli scritti ai margini e alla fine del contratto vero e proprio e il cui valore non venivano compreso nella valutazione complessiva delle doti. Era rarissima la donazione di tali beni alla figlia e non al genero. Prudenza Peonica ricevette dal padre, mastro artigiano, secondo l’atto notarile del 15 dicembre 1730, «vantesini numero quattro; faccialetti numero sei; uno di essi ricamato d’argento e l’altro di seta; vantesini di tela sottile numero due; camiscie di lino numero quattro; una camiscia d’orletta; calzette para quattro; due busti, uno d’Amovera con cima d’argento e l’altro semplice: un manto e sottanino di scottino scuro; una persiana d’Arnesino; una corsea e sottanino di scottino scuro; un sottanino di baietta; una veste da camera; un centurino di fibia; due spadelle d’argento; un cuscino di velo damascato; un abitino d’argento; un paro di catenaccelli d’oro; un baullo di vacchetta nuovo; due tovaglie bianche; li manicotti e (...) di sposalizio». E il bottegaro Nicola de Guido consegnò alla figlia che andava sposa di un calzolaio, «una veste turchina con zaini d’argento; un vantesino fiorato bianco con felbala; quattro camise di donna, con petto d’orlettone e il corpo di lino; due vesti di donna, una di esse di durante e l’altra consistente in cotonino colo snatnicola; un braciere di rame; un sottanino d’armesino color (…); una gonnella di stamina turchina; un busto d’armesino verde;  un burrico di capicciola con zaini d’oro; un lenzuolo di cannanello; cinque camise di donna con petti d’orletta e quattro di cannaniello; cinque paia di cuscini, due di essi con pezzilli, un intornialetto usato; tre tovaglie; sei salvietti; una tovaglia di lino con pezzilli; una veste di stamina turchina con zaini d’argento; due mantesini, uno di tela di Persia e l’altro di orletta; tre moccatori, uno di seta e gli altri due di orletta con pezzilli; un paio di calzette di filo bianco; una spatella, due spondoni; una ficarella ed altre coselle d’argento e una cicolatera di rame».

I contratti stipulati da nobili e ricchi (17, un decimo di quelli consultati) non si sottraevano allo schema tipico dei “patti matrimoniali”. Ma più la dote (nella quale comparivano spesso maritaggi erogati dal monte fondato da qualche antenato della sposa) era consistente (riscontrai un valore massimo di 12.000 ducati) più chiaramente emergevano alcuni elementi caratterizzanti. La donna aveva, in alcuni casi, il diritto di acquistare autonomamente gioielli e vestiti di suo gradimento, con dei soldi messi a sua disposizione per questo specifico scopo dal marito o dalla famiglia del marito. Agostino e Vincenzo Savarese, rispettivamente futuro suocero e futuro marito, «s’obbligano a pagare a d. Francesca ducati sessanta l’anno per lazzi e spille e a spendersi a suo arbitrio e volontà». E l’illustrissimo signor cavaliere don Mario del Tufo, sposando l’illustrissima signora Anna Maria Gatola, «promette e s’obbliga a pagare in costanza del presente matrimonio ogni anno alla sig.ra Anna Maria d. settantadue per lazzi e spille di sua persona». Con la precisazione, che tornava spesso in questi casi, che «però dissolvendosi il matrimonio per morte di uno dei coniugi, e non ritrovandosi la sig.ra Anna Maria esatti né donati i suddetti ducati settantadue, in tal caso il d. sig. Mario non sia tenuto che a pagare l’ultima annata, come dispone la regia prammatica». Ed era anche possibile che una parte del denaro dotale venisse esplicitamente conferita in gioie ad uso della sposa. «Per la somma di ducati centoventicinque, Nicola (il padre) ha promesso ai fratelli (il futuro genere e il futuro cognato) oro lavorato per uso e ornamento di Santa». In secondo luogo, veniva stabilito dove i futuri sposi sarebbero andati ad abitare: in casa dei genitori di lei o di quelli di lui in base probabilmente alle convenienze dei singoli casi. Il patto tra Domenico Sarrarese e Agostino e Vincenzo Savarese prevedeva «espressamente che d. Vincenzo e d. Francesca debbano stare con d. Domenico e coabitare in casa del medesimo e sia tenuto e obbligato esso Domenico a dare e somministrare ai futuri sposi tutti gli alimenti necessari consistente in vitto, pigione di casa, carrozza, servitù; però in questo caso non sia tenuto a pagare l’interesse di dette doti». La dote veniva fissata in dodicimila ducati, «ma nel caso volessero i ssgg futuri sposi separarsi dal d. Domenico e non stare più unitamente in casa sua e volessero altrove abitare, la dote sia di ducati ottomila, con l’interesse alla ragione del cinque per cento, da pagarseli ogni anno terziatamente e ciò s’intende durante la vita di Domenico ma dopo la morte del medesimo la dote sia sempre di dodicimila effettivi». «Di più si conviene che nel caso in cui il sud. Domenico passasse a 2 nozze o di sua volontà non volesse che i futuri coniugi servissero più in sua casa, sia tenuto subito e immediatamente a pagare le suddette doti di dodicimila effettivi». Teresa di Ruggiero Rispolo andrà invece a vivere col marito Baldassarre di Franco, nella casa del suocero Pietrantonio. «E si è stabilito che, seguito il matrimonio, volendo il Baldassarre dividersi dal d. Pietro e stare da solo, sia tenuto il detto Pietro ad assegnare a Baldassarre ducati cinquemila in conto della porzione che gli spetterà e dovrà pervenirgli dai beni ed effetti che rimarranno dopo la morte del padre».

Tutti i contratti della fascia benestante della popolazione si concludevano con la “rinuncia” della donna a qualsiasi altro bene paterno in quanto si riconosceva dotata “di paragio e oltre il paragio”. Pagine fittissime amplificavano, nei contratti, tale “rinuncia”. Mario del Tufo «prometteva che la sig.ra Anna Maria, col di lui consenso, quieta e l’eredità e i beni di padre e madre e del signor Paolo (suo fratello), sia delle doti predette che per ogni parte, porzione, legittima, pareggio e loro supplemento e di ogni altra ragione che le compete al presente e possa competerle per l’avvenire, sopra tutti e qualsivogliano beni paterni, materni, zienni, avenni. Di più, per certa scienza e bene informata delle sue ragioni, per lei e i suoi figli, cederà e rinuncerà, tanto traslative, quanto (…) a beneficio del sig. d. Paolo, suo fratello e dei suoi eredi (…) e donerà per titolo di donazione irrevocabile tra i vivi al sig. D. Paolo e ai suoi eredi e successori ogni azione, parte, porzione, legittima, passaggio, supplemento ed ogni altra ragione alla sig.ra Anna Maria spettante al presente e che le potesse spettare per l’avvenire sopra tutti e qualsivogliano beni presenti e futuri, ragioni, eredità e successioni paterne, materne, sororie, zienne, patruorne, Avonculorne, Amitarii, Maternarii e Avite (…) e altre successioni e scadenze e legati qualsivogliano che alla sig.ra Anna M. fossero devolute o si devolvessero o si potessero in futuro devolversi ob quandocunque causa de preterito ancorché nello stato presente e sino a che sarà contratto il presente matrimonio, siano in semplice e nuda speranza anche remota, remotiss.a tanto per testamento quanto ab intestato per causa di legati, fideicommissi, purificati e purificandi donazione tra vivi e per causa di morte o di ogni altra ragione, titolo e causa e per qualsivoglia istituzione diretta o fideicommissaria  e tanto per atto tra i vivi, quanto di ultima volontà, che habet causam de preterito e da tutti i tempi passati fino al giorno che si contrarrà detto matrimonio e che si farà detta quietanza, rinuncia o donazione e che dall’ora avanti se li devolvessero ab intestato solamente per eredità successione, e linea sua paterna, materna, fraterna, sororia, zienna, patruorna ecc… e tanto per linea diretta, come collaterale e trasversale, in quocunque grado ed aliter undecunq.qualitercuq. et a quocuq. Etiam jure consuetudianario della città di Napèoli nella Costitutio et Capitulori Regni et quoni alio iure et consuetudine ed altre cause cognite ed incognite per i quali tanto la sig.Anna Maria quanto i suoi figli nascituri e descendenti potessero venire ex propria persona né si possa dire di aver promesso il fatto alieno, e di aver fatto tutto il possibile per la ratificazione ed effettuale esecuzione della presente renuncia e donazione ancorché l’eredità e successioni se li deferissero dopo la morte di esso sig. Paolo né si possa allegare rinuncia e donazione essere stata fatta a contemplazione della persona di esso sig. Paolo, la qual rinuncia s’estenda tanto alle cose cognite quanto alle incognite et petitus ignorata, ancorché vi fosse speranza sussistente del presente e per causa e ragione del passato e dell’avvenire, né possa essa sig.ra Anna Maria e i suoi eredi e sue, in nessun futuro tempo venire contro d. rinuncia e donazione ma detta rinuncia e donazione s’abbia a intendere reale… e beneficio del sig. Paolo e suoi eredi e successori. Dei quali predetti legati, fideicommissi, disposizioni e testamenti e altri atti dichiara la sig.ra Anna Maria esserne a pieno informata, promettendo d.quietanza, rinuncia, donazione e promesse non contravvenire… Inoltre il signor Mario promette che la sig.ra Anna Maria, durante il matrimonio e i figli del presente Matrimonio durante il matrimonio e dopo in ogni futuro tempo, avranno rata e ferma la d.quietanza, rinuncia, donazione e promesse e se la sig.ra Anna Maria in qualche modo contravvenisse e i suoi figli, il sig. Mario promette dei suoi propri denari e beni interamente ed effettivamente soddisfare al d. sig. Paolo e succ. per le loro indennità tutto quello che forse la sig.ra Anna Maria in costanza di matrimonio ovvero i figli e discendenti del pres. Matr. In ogni futuro tempo conseguissero, contro la forma della sud. Quietanza, rinuncia e donazione, e così similmente sia tenuto, se la sig.ra Anna Maria in costanza del presente matrimonio non facesse le sopradette ratifica, quietanza, rinuncia e donazione e promesse, nel qual caso restino anche valide e fruttuose d. quietanza, rinuncia e donazione. Nei quali beni e ragioni da ora per allora nel caso predetto e a contra il sig. Mario si costituisce vero presente liquido debitore e quelli d. signor d. Mario a suo proprio, privato e presente nome dona per titolo di donazione irrevocabile tra vivi al su.sig.Paolo, suoi eredi e successori, la qual donazione vuol esso sig. d. Mario che non s’intenda per clausola dependente e accessoria alla d. Quietanza e donazione facienda per detta Sig.ra D. Anna Maria, ma per atto principale e indipendente, e di propria donazione di esso signor Mario, fatta di sua volontà, certa scienza e di mera liberalità del d. signor Paolo». Con la stessa lunghissima formula, avveniva la rinuncia delle altre donne nobili e ricche, di norma a favore del padre e solo indirettamente a favore dei fratelli e, in qualche raro caso, anche delle sorelle.

Contai una ventina di contratti, quasi tutti stipulati a Napoli, conclusi da “poveri”. Le doti, infatti, erano molto esigue, andando da un minimo di 25 ad un massimo di 50 ducati, e derivavano tutte da maritaggi della Real Chiesa Estaurita di Sant’Agrippino, cui si aggiungevano, talvolta, altri maritaggi, del Pio Monte della Misericordia, ad esempio, o della Chiesa di San Giovanni Battista, detta Muro, in base al lascito di Lonardo Parenze “alle povere figliole zitelle abitanti nella strada di sopramuro della contrada di Forcella”, cosicché la dote base di 25 ducati riusciva a raddoppiarsi. In questo tipo di contratti – che sembravano interessare anche la fascia più povera degli artigiani (vi figuravano, per esempio, un sartore, un apparatore, un guarnamentaro, un tarallaro) oltreché almeno una parte dei servi (vi comparivano, infatti, un lacché e un servitore) il padre della sposa si limitava ad assegnare al genero il maritaggio e, talvolta, due maritaggi. I “beni corredali” di norma erano assenti: se comparivano avevano valore basso, ma non disprezzabile. Antonio Manfredi assegnava «a Giuseppe e anche a Filippo suo padre che s’obbliga insieme al figlio cui dà il suo consenso, il maritaggio di d. venticinque della Real Chiesa ed Estaurita di S. Agrippino… in più promette duc. Venti in robbe di casa di cui si farà nota». Carmine Fiorentino assegna al genero, oltre due maritaggi, “le seguenti robbe: un materasso di lana duc.5; una coperta d.3; tre lenzuola d.3.3; una crocetta d.5; un paro di ficcagli e rosario d. 3; tre camise d. 2; salvietti, tovaglie e faccie di cuscino d.1.2.10; un baullo d.1; quattro pezzi di quadri, due grandi e due piccoli, d.3; una gonnella d.3; una persiana d.3; per quattro cuscini d.8.2.10; una judeschina d.1/2.10; che sono in tutto d.35.0.10». I contratti nuziali dei poveri rimandavano alle istituzioni e all’organizzazione complessiva della beneficenza. I maritaggi elargiti dai vari monti di pietà avevano un valore economico non trascurabile ed essendo cumulabili, potevano consentire una dote decorosa. Più di una volta mi chiesi se la dipendenza economica delle fanciulle povere dalla beneficenza pubblica, le aveva in qualche modo ed eventualmente fino a che punto svincolate dall’autorità paterna.

Le vedove e le orfane, senza parenti esercitanti la patria potestà, avevano il privilegio di “dotare se stesse” concludendo direttamente i contratti col futuro marito. I venti esempi che ritrovai nel fondo notai dell’Archivio Nazionale di Napoli erano di grande interesse. C’erano indicati l’assegnazione di maritaggi delle arti e corporazioni, la donazione di case e di danari (fino a 1500 ducati), ma, soprattutto, con grande puntigliosità tutti i “beni corredali”, non sempre presenti negli altri tipi di contratti. Ne emergeva un quadro molto vivo della “quotidianità” di queste donne e, in parte, di queste famiglie. I “ducati quaranta conseguendi dalla cappella di Zamorra detta di S. Marco (e i) ducati trenta per maritaggio (…) di Poveri di Gesù Cristo e dieci per il maritaggio di San Giacomo degli Italiani” (1) che Anna Camilla di Rosa promette al marito, erano accompagnati consistente da «un letto consistente in due materassi pieni di lana; 4 lenzuola; 4 cuscini, coperta con quattro grandi e piccoli con loro cornici; un baullo di vacchetta ventrellato d’ottone e altra roba di uso di casa». E Agnese di Gaetano, orfana di uno scarparo, assegnava al marito, legatore libraro «duc.novanta, liberi ed espliciti: cinquantotto d’essi per un maritaggio a lei pervenuti dalla Reale Congregazione dei 63 sacerdoti sotto il titolo dell’Immacolata Concezione nel vicolo dei Scassacocchi, come una delle figliole sistenti (sic: per esistente): altri trentadue in tanto oro lavorato, cioè una crocetta di rubini sopra oro, e un paio di fioccagli simili alle crocette apprezzati per d. diciotto e ducati dodici in biancheria e carlini venti per una persiana di stamina di color turchino». Qualcuna prometteva, oltre a denaro contante, “bene stabili”, Angelo Russo, vedova di Domenico Stanzione, cedeva, tra l’altro, «una casa consistente in una camera superiore e cucinino inferiore con forno, cantaro da lavare, e altre comodità, sita nelle pertinenze di questa città, nel terziero di Privaro ecc. ecc. una cucina inferiore discoverta posta similmente nelle pertinenze di questa città ecc. ecc. un altro tenimento di case, consistenti in tre casette inferiori, due di esse scoperte, e una coperta con (…) a cielo, con tutte le comodità, posta in questa città nel terziero di Scanza (…). E si è stabilito che sia lecito a Giuseppe i menzionati beni in tutto o in parte liberamente venderli e alienarli a sua elezzione».  La parte finale di questa citazione mostrava con chiarezza come al diritto “formale” di concludere direttamente, in certe situazioni, il contratto matrimoniale non si accompagnassero per la donna diritti “reali”.

Particolarmente interessante il contratto firmato da Santa Fosca, vedova di Scipione Serpellone, che il 10 novembre 1702, assegnava al futuro marito, Antonio Miele «i sottoscritti mobili, oro, argento, lavorato e altre suppellettili di casa, con un’intera Bottega di acquavite e sorbetteria con tutte le comodità necessarie quali cioè: prima di tutto una crocetta d’oro con quindici smeraldi tra grossi e piccoli un paio di fioccagli di oro cinque perle mezzenotti; un paio di fioccagli piccoli con una perla alta genovese smaltati; un altro paio di anellette d’oro con loro madre per le pendenti; un paio di fioccagli d’oro senze perle mezzenotti; un altro paio di anellette d’oro con una perla; un anello d’oro fatto a cuore, con un giro di pietre turchine e una più grossa in mezzo; un altro anello d’oro mezzano con cinque rubini e quattro smeraldi; un altro anello più grandetto del suddetto lavorato, con sette pietre verdi e una rossa in mezzo quattro bottoni d’oro, piccoli con pietre ordinarie; un altro anello piccolo d’oro con una turchina; e un altro anello similmente d’oro piccolo con una pietra in mezzo che serve a conoscere il veleno; una filza di granate e senacoli d’oro; un rosario di granatelle, e senacoli d’oro grossi e piccoli con una medaglia mezzana d’argento; un rosario di coralli rossi con alcuni senacoli piccoli con una medaglia di filograna d’argento grossa con una crocetta in mezzo d’oro e smeraldo bianco da due parti di detta medaglia; sei medaglie d’argento tra grandi e mezzane; una tabacchiera d’argento intagliata con filigrana d’argento; due reliquiari di Cere Sante con l’argento attorno; un filo di perle d’Inghilterra, molte galanterie di donna e un paio di fioccagli di filograna d’argento; tre posate d’argento ordinarie, consistenti in tre brocche, tre cocchiai e tre maniche di coltelli d’argento; un vestito di robi di seta color café con i suoi fiorini d’oro consistente in uno sottanello, angiolina, busto Taffetà regato rosso e bianco e pettigliadell’istesso robi, con il centorino d’oro con fibia d’argento; un sottaniello di raso color musco fiorato con suo corpetto di damasco negro novegno; un vestito di scottino color violetta, consistente in corpetto e gonnella novegna, un vestito di saia imperiale color musco, consistente in gonnella e corpetto guarnito di puntilli d’oro; un corpetto di raso regato color incarnato e turchino usato; una tovagliola di donna incarnata con oro; uno vestito di dnna consistente in gonnella di saiafarà di seta color café con francia a balze, con corpetto di boratto negro usato; una cammisola di seta a maglie color verde usata; quattro muccatora di aletta nuovi arricciati con pizzilli fini attorno, sei calzonetti di orletta nuovi con pezzilli e loro lazzi di seta con spungoli grossi d’argento; sei camise di orletta nuove di uomo con pezzilli fini e cositi tutti con lavori di filo; quattro bascettini d’orletta con pezzilli, e lavori di filo attorno, uno panetto (…) di taffetà (…) bianco e rosso foderato di sangallo con francia attorno nuova; cinque camise di tela di lino nuove di uomo; cinque calzonetti dell’istessa tela; quattro mesali all’uso di Fiandra fini nuovi grandi: trenta salvietti dell’istesso nuovi, otto tovaglieper la faccia di bombace a pepariello fine grandi e nove;tre para di lenzuole nuove, cioè uno di tela di cascietta, due para di tela di lino e lino; tre altre paia  di lenzuola di tela fine maneggiata; quattro para di faccie di coscini di tela di lino e lino fine con pezzilli nuovi; due mesali a pepariello di bombace usati; otto rotola di cannano e lino filato per farne tela per uso della casa; quattro materassi pieni di lana cioè tre di lana bona e uno di lana ordinaria, con loro faccie di coscicigno; nove cuscini usati pieni di lana con loro faccie di cocitrigno tra grandi e piccoli; due coperte di lana bianca usata; una trabacca di panno verde consistente in quattro pezzi e uno armaggio di noce indorato usato; due bauli (…) usati; una cassa di noce con un baulletto di vacchetta usati; sette pezzi di quadri piccoli senza cornice di diverse efficie di Santi due buffette di chiuppo, una grande e un’altra piccola, usate; una caldara di rame mezzana usata; due tielle di ferro; una braciera di rame piccola; sei sedie di paglia usate; quattro quadrilli tondi con diverse effigie di Santi per il Panneto; uno crocifissetto d’argento sopra la croce d’ebano per pannetto; uno specchio di lume di un palmo con sue cornici di pero; ventidue vasi di stagno fino di Venezia, cioè tre di essi di cento giarre di sorbetto l’uno, tre altri di 50 giare l’uno, uno di 60 giare, tre di venti giare l’uno, tre di quindici giare l’uno, quattro di dieci giare l’uno, e l’altri cinque di giare sei e 8 l’uno che in tutto sono detti ventidue vasi, ognuno di essi con il masco, due sottocoppe dell’istesso stagno di Venetia fino; tre cochiaroni d’ottone per menestrare la sorbetta; due candelieri d’ottone con lo smiccio dell’istesso; cinque cocchiarini piccoli per pigliare la sorbetta; un quadro con l’effigie della Beata Vergine del Rosario di palmi due e uno e mezzo senza cornice; uno quadro d’Eccehomo senza cornice di palmi 3 e 2; dodici pezzi di quadri ordinari usati con frutti e mezzibusti di donna; diciassette piramidi piccole di stagno per far sorbetta, due piramidi grandi dello istesso; trentuno carrafone grosse di vetro impagliate di peso; dieci nuovi carrafoni di vetro di catenelle di peso per uso d’acquavita; uno lambicco di carric. Di un barile scarso; una cioccolatera grande e due piccole con una cocoma per il caffè di rame; nove carrafine di vetro di peso con loro boccagli di stagno per uso d’acquavite; due scanni uno di noce e un altro di pioppo usati; sei seggie di paglia ordinarie; quattro fesine di creta grandi per uso d’acquavita; cento giare in circa di netto per pigliare la sorbetta, e orgiada di diverse sorti; cento coverchi di stagno in a le giare di sorbetta; ventisei pezzi di porcellane tra grandi e piccoli con due bacili grandi dell’istesso; da sessanta scatole di legno usate impeciate per mandar la sorbetta fuori della bottega tra grandi e piccole; di più lo Bancone di detta Bottega, con los tiglio di legno lavorato, con le gelosie da dietro detto stiglio e tutte l’altre comodità minute per uso di detta Bottega con la Capitania che presentemente ci si ritrova di zuccaro, cioccolatta e acquavita». Tutti questi beni andavano, come di norma, al marito ma Santa Fosca si riservava 40 ducati che sarebbero andati ai figli di primo letto, mentre tutti i suoi beni, alla sua morte sarebbero stati divisi in due parti; una ai figli del precedente matrimonio, l’altra all’attuale marito e ai figli nascituri. L’amministrazione della bottega restava alla donna: vi avrebbero lavorato i suoi due figli, finché sarebbero stati nella casa del patrigno e da lui mantenuti; quando l’avrebbero lasciata, la bottega sarebbe diventata loro proprietà, ma essi avrebbero pagato alla madre, settimana dopo settimana, il guadagno, mentre da amministrarla sarebbe stato il patrigno. 

Io me le vedevo tutte, quelle donzelle, ricche e povere, giovani e vecchie, che stavano per affrontare il matrimonio. Lo avvertivano come una tappa bella della loro vita o come un destino senza uscita? Avevano legami d’affetto con i futuri mariti o erano degli estranei nelle cui case sarebbero entrate? Quante storie, liti, contrasti, piccoli ricatti avevano contrassegnato la stipula dei contratti, quante volte il matrimonio era stato sul punto di saltare per un po’ di “roba” richiesta dallo sposo e negata dal padre? Soprattutto: qual era il loro senso di se stesse? E che meraviglia il mondo minuto dei corredi, con l’elenco di beni davvero minimi, che chissà quanto valore avevano. Non solo quello economico, ma quello dei sentimenti, delle emozioni, della stima di sé. Lo ricavavo dalle esperienze di corredi che pure io avevo. Le mie nonne, per quanto povere, erano ancora orgogliose delle lenzuola e delle asciugamani portate in dote (e ricamate da loro stesse). E la stessa cosa valeva per zie e prozie. Nelle case del mio paese, per la processione del Corpus Domini, si mettevano ai balconi copriletto di seta: troppo preziosi per usarli, ma guai a non averli in dote. Ed io stessa avevo visto mia madre andare nel panico, quando, qualche settimana prima del mio matrimonio, aveva preso atto d’aver dimenticato di riempire di lana di pecora i cuscini per il mio letto. Ma sapevo anche l’importanza delle piccole cose: nella mia prima giovinezza, si usava regalare, alle e tra ragazze, fazzoletti ricamati, veli da mettere in testa in chiesa la domenica e sottovesti. La sobrietà del vestire cui eravamo state abituate da piccole lasciava spazio, per questi pochi oggetti, ad un pizzico di civetteria. Erano già spariti i veli (una fortuna per me che ne avevo persi a decine, come a decine avrei continuato a perdere gli amati foulard), le calze erano ormai i collant e sparirono, in breve, anche le sottovesti. Tolte per indossare i pantaloni, vennero in breve abolite anche quando si indossavano gonne.

La quasi totalità dei “corredi” sembravano essere determinati, per quanto riguarda la varietà, quantità e qualità dei beni donati, solo dallo stato economico-sociale della famiglia della sposa. In alcuni casi, però, e in alcun paesi della provincia napoletana, i contratti nuziali presentavano corredi la cui forma e consistenza era determinata da usi e tradizioni tipiche cui le famiglie si adeguano. A Casal Mugnano, Gennaro Grasso ricevette dal suocero Scipione del Turco, in nome della futura moglie, Orsola, il corredo «detto volgarmente alle tre, secondo l’uso di questo casale consistente in: una cascia di noce usata; un materasso pieno di lana usato; cinque lenzuola due di lino guarnite con pezzilli e tre di cannano; cinque camicie di donna di lino, sette tovaglie una guarnita con oro e l’altre con pezzilli bianchi; cinque faccie di coscini; una gonnella di scottino guarnita con pezzilli d’argento e velluto; uno dobretto; una gonnella di saia Santo Nicola usata; uno bambacigno; una camiscioladi saia scarlatino con pezzilli d’argento; un mantesino di rascia con pezzilli d’oro e zigarella; uno panno incarnato; una collana e uno braciere di rame; uno paro di fioccagli d’oro e mezza cannaca similmente d’oro». Un contratto alla tre ricevette anche Antonio Maione, dal suocero, per le doti della moglie Anna Orienza, a Casal Panicolo. Era costituito da «due gonnelle di saia ambrosino guarnita con pezzilli d’argento una e l’altra color pignolo guarnita con pezzilli d’argento nel petto; una camisciola scarlatino guarnita con pezzilli d’argento; un’altra camisciola di scottino similmnete di color pignolo senza guarnigione; uno antesino (sic per mantesino) di rascia con pezzillo d’argento e un altro antesino di rascia con zigarella, uno panno ricamato; uno bambacigno di lino; sei lenzuola, quattro dilino e due di cannano; quattro camicie di donna di lino; sei tovaglie due di lino e quattro d’orletta; sei faccie di coscini due d’orletta con pezzilli e quatro di lino similmnete guarnite con pezzilli bianchi e inoltre due natelle d’oro per le orecchie con sette perle l’una ascendente al valore dei ducati sette e una caldara di rame usata e una tiella di ferro usata ascendente a carlini trenta e dieci ducati promessi in oro». A Casal Mugnano, come pure ad Afragola, si ritrovavano anche esempi di corredo alla quattro. Lo ricevette, per esempio, il marito di Giovanna d’Auletta: «una cascia di noce nova; un materasso; sei lenzola di lino nuove guarnite con pezzilli di più maniere e due altre di cannano, sei faccie di cuscini, tre di tela bianca e tre di lino guarnite con pezzilli, uno intornialetto di lino guarnito con pezzilli, sei camise di donna, cinque di lino e uno di tela bianca guarnita; uno mesale a pepariello, cinque altre camise di donna di tela bianca guarnite con pezzilli; tre gonnelle una di panno e due di scottino guarnite con oro, due bombacini e uno dobretto di tela bianaca, tre mantesini uno di broccato d’oro e due di rascia guarniti con oro, dieci tovaglie cinque d’orletta e cinque di lino guarnite con pezzilli e due caldara di ramme nuove». Nella stessa Mugnano era possibile anche ritrovare corredi alla sei. «Una cascia di noce nuova, uno materasso di lana, due cuscini, sei lenzuola, quattro di lino e due di cannano nuove, sei camise di donna, quattro di lino e due di cannano con pezzi d’orletta guarniti con pezzilli, sei faccie di cuscini d’orletta nuovi guarnite con pezzilli, tre guarnite d’oro, una d’argento e due con pezzilli bianchi, una gonnella di mezzo mercato, guarnita d’oro con un’altra gonnella di saia di Venezia color paonazzo guarnito d’oro con altre gonnella di teletta d’Ollanda, guarnita con trene e pezzilli d’oro, uno mantesino di broccato guarnito d’oro un altro mantesino di rascia fabiana guarnito con trene d’oro e pezzilli d’oro un altro mantesino similmente di rascia fabiana guarnito d’oro e mezzo damasco una camisola di morcato un’altra di scarlato di fiorenza un’altra camisola di Venetia guarnita d’oro una fasciatura incarnata con la testa un altro fascitoro di scarlato di Venetia quattro altre camise cusate guarnite con pezzilli e (…); tra tovaglie di lino cusato con pezzilli e due moccatora d’orletta con pezzilli (…) e due fila di granatelle e un paio d’anelletti d’oro con sette perle». C’erano anche esempi di corredo alle sette. Ad Afragola, il 4 settembre 1751, Antonio Calvano e suo padre riconoscevano d’aver ricevuto per le doti della moglie e nuora «i seguenti beni corredali alla sette, secondo l’uso di questo casale, praeter delle sottovesti seu gonnelle. In primis uno sproniero di tela di lino bianca e tre porte guarnite con i punti bianchi e il tornalietto di tela di orletta guarnita con pezzilli bianchi. Sette lenzola per il letto cioè uno di tela d’orletta guarnito di pezzilli, un altro di tela curata guarnito di pezzilli e cinque altre lenzola di tela di lino, cioè quattro guarnite con punti bianchi e un altro semplice. Camise da donna trenta cioè due di tela d’orletta un’altra di nosellino guarnita di pezzilli e le altre 2 di tela di casa con li petti di tela di lino. Tovaglie di donna n 98, cioè cinque di esse di tela d’orletta guarnite di pezzilli e un’altra di seta guarnita di pezzilli e due altre di tela di lino. Otto fascie di coscini, cioè quattro di essi di tela d’orletta guarniti di pezzilli e quatr’altre di tela di lino. Moccatora n.otto, cioè cinque d’essi di tela d’orletta guarniti di pezzilli e un altro ricamato con oro e due altri di tela di lino. Tela di apperariello braccia n. venti. Una faccia di materasso di tela e cocitrigno. Una faccia di saccone e quattro pennaroli (…). Gonnelle n. sei, cioè una di broccato color celeste e un’altra di scarlato guarnita di gallone d’oro, un’altra di camelotto d’Inghilterra color d’amaranto guarnito di gallone d’argento; un’altra (…) di camelotto d’Inghil. Color cammello, un’altra di stamina color torchino e un’altra di scottino color caffè. Corsé n. otto, cioè una di velluto negro guarnito di galloni d’oro e smerzi di tela cannanaccio di ore, un’altra di scarlato, un’altra di camelotto d’Ingh. Color d’amaranto guarnita di galloni d’argento un’altra di camellotto d’Ingh. Color cammello parimenti guarnita di galloni d’argento; un’altra di stamina color torchina un’altra di scottino color caffè e due altre di tela di lino bianche. Antesini n. sette, cioè due di tela d’orletta, uno di essi guarnito di pezzilli, un altro figurato, un altro di rascia verde, dua altri di tela di lino e un altro di panno verde per ogni giorno. Due rezzole di seta, due para di guanti, cioè uno di seta scarlato ricamato e l’altro di seta negro. Uno ventaglio. Tre para di calze, due paia di pantofani, uno di essi ricamato e l’altro colore S. Nicola e uno paro di scarpe ed una canestra di diverse galanterie. In più una caldara, (…) di rame, una coperta per il letto di lana, una cascia di noce e la detta faccia di materasso piena di lana di valuta di d.21 circa”. I beni dotali di Candida Dente, ricevuti dal marito col contratto del 14 settembre 1708, avevano un valore complessivo di ben 200 ducati: “Una trabacca di noce, con capezzera indorata agli estremi; quattro ferri di quella trabacca; tre materassi completi di cocitrigno uno pieno di lana barbaresca, un altro di lana ordinaria e un altro di capizzi; un vestito di donna consistente in gonnella e manto di (…) color carnagia con argento e galloni di argento. Un altro vestito di donna di drappo color café e bianco consistente in gonnella e mantillo; una persiana di drappo color turchina bianca e altro; una cotra di dobretto bianca coi fiocchi; quattro faccie di coscini di orletta con pezzilli, molti di taffetà incarnati a raganelle, una verghetta d’oro nominata fede con pietre bianche false e una rossa nel mezzo, una altra verghetta d’oro con pietre verdi false; un paio di scarpe da donna; un paio di calzette di seta incarnate, sei camise di donna, quattro di tela di lino e lino e due di tela bianca tutte con pezzilli; quattro moccatora di diverse sorte di tela; un mesale a pepariello con francia; sei lenzola cioè uno di orlettone, due di tela di lino e lino e due altre di stoffa e cannano; sei salvietti ordinari e di fiandra con pezzilli e senza; due tovaglie di faccia a papariello di fiandra con francia, due altre tovaglie di tela di lino e di lino con francia; quattro camise d’uomo due di lino e lino e le altre due di tela di cascietta; quatro para di calzonetti, cioè due para di tela di lino e lino le altre due para di tela bianca; quattro altre faccie di cuscini di tela di lino e lino e quattro altre faccie di cuscini di tela di cascietta bianca; una tovaglia (…) con pezzilli; un paio di fioccagli con perle; una manta di lana bianca; un busto di donna; un baullo di vacchetta fatto a cascia; una crocetta d’oro con pietre false e anco sei perle; un altro vestito di donna di saietta della costa color café consistente in corpetto e gonnella; un altro vestito di saietta della costa color torchino consistente in corpetto e gonnella; un altro corpetto di drappuno color camoscio».

Mi affascinavano gli elenchi di gonnelle e mantesini, soprattutto nei casi, molto comuni, in cui veniva indicati i prezzi fino al più piccolo tornese. Francesca Rosselli portò con sé nella casa del marito «due posate d’argento; due paia di fioccagli di smeraldi; un paio con perle e un altro con amendola sotto gli stessi smeraldi; una crocetta compagna del schioccagli di smeraldi; tre anelli, con fede di smeraldi e due anelli semplici; uno rosario con cento signacoli d’oro e garnatelle; uno sottano di ramoerro, sottanello e persiana, il sottaniello è guarnito con un punto di spagnia; un altro vestito di noboltà cenerino, sottanello e manto; una persiana di camellotto novo con un sottanello di camellotto scarlatto, due corsé, uno di camellotto ed uno di amorino; un bisto trapuntato con petti d’argento di ramoano trapuntato; un altro bustonuovo di ramoarro scuro per giornalmnete; 7 materassi, 4 coscini grandi, una coverta di lana usata ed un’altra coverta di tamasco non nuova ma buona con ricamo attorno, due lenzuola di tela di casa; lenzuola di lino biancheggiata di (…) n.tre; altro lenzuolo d’orlettone; quattro faccie di coscini grandi di tela di lino bianchiata; 4 altre di orlettone, similmente grandi; 7 camise di donna di orlettone guarnite; due mesali nuovi e due (…) l’uno a peparelli; un mesale grande di fiandera (sic per fiandra); 4 tovaglie a peparelli e mantesino ricamato; 2 altre tovaglie di fiandera un tornaletto; 14 salvietti, sei di fiandera e otto a peparelli; un vestito di (…) in seta, consistente in mantò e sottanello; 1 stipo nuovo benfatto, alla genovese, il quale costa sedici ducati; 1 bauglio (sic per baullo) usato; un botteffino ed uno scrittoio con vetri e personaggi; 4 quadri con cornici indorate; 1 caldara ed una concola ed un braciero con il piede di noce novo all’uso; 1 tiella di rame ed inoltre alli altri comodi di cocina e di casa ci pensa la sua madre; 1 invitrata; 1 ventaglio d’avorio nuovo allo uso; uno scillò ricamato con pezzilli d’argento all’uso; 1 moccatuto speronato a colore di rose nuovo; 1 manticco di velo nuovo; 1 altro moccaturo puro speronato nuovo; 1 panetto guarnito con le sue galanterie. Questa nota si è fatta per nostro gusto; però ci sono molte altre cose che la madre darà alla figlia e che la figlia tiene presso di sé». La lista dei “panni apprezzati da Rosa Bilotta” di Brigida Padovano era, invece, così composta: «un paro di lenzuola e una tovaglia di fiandra d. 4.0.0.; un paro di lenzuola di cannano d. 2.0.0.; un intornaletto d’orletta co’ francia e pezzilli d.2.0.0.; una cotra con aquila d.3.2.10; quattro coscini due grandi e due piccoli guarniti c’ pezzilli e zagarelli d.2.0.0.; quattro coscini due grandi e due piccoli di panno corato guarniti d.1.0.; due camise, una di donna guarnita co’ pezzilli e un’altra di uomo d’orletta 3.0.0.; due camise di panno corato fi femina guarnite co’ pezzilli 2.2.0; due camise di pannocorato di uomo con un salvietto 2.2.10.; un mantesino d’orletta guarnito co’ pezzilli 1.0.0.; una tovaglia d’orletta guarnita e una moccatora d’orletta e una tovaglia di fiandra e un salvietto di fiandra 2.0.0,; uno intornaletto di tela curata con francia e pontilli 0,1.10.; uno corpetto d’annesino giallo e una gonnella torchina 5.0.0; un paio di fioccaglie a gietto a cinque perle, una crocetta incarnata e senacoli cinquanta due 25.0.0.; una gonnella e corpetto di scottino dorato; uno corpetto di cammello donato guarnito con zainette d’oro; uno corpetto di imbrossellino co’ pezzilli donato ; una spatella a spongoloni d’argento donati».
In rari casi, i contratti matrimoniali indicavano il passaggio diretto dell’intera dote dalla madre (terreni, denaro) alla figlia mentre più largamente in uso, anche in mancanza di una specifica precisazione, appariva la trasmissione del corredo. Una scelta che, a giudicare dai documenti, sembrava non tanto una determinazione della madre a favore della figlia, quanto piuttosto, nell’ambito dell’economia familiare, una più o meno tacita convenzione a considerare i beni familiari (ovvero i beni del marito e quelli acquisiti dalla coppia dopo il matrimonio) beni dei figli maschi, mentre alle donne, “estranee” dal punto di vista legale per quanto riguardava la successione, si donavano i beni della moglie/madre, anch’essa “estranea”. Questo nei casi in cui era tutta la dote della madre a passare alla figlia. Lì dove, invece, era solo il corredo o parte di esso ad essere trasmesso, probabilmente i fattori economici – “risparmiare” sulle spese, consegnando al futuro genero ciò che già si ha in casa piuttosto che fare nuovi acquisti – si intrecciavano con i bisogni sentimentali e affettivi delle donne, desiderose di lasciare alle figlie quanto loro stese o le loro madri o addirittura le loro nonne avevano cucito e ricamato, preparandosi al matrimonio. Sembrava emergere, cioè, dai contratti nuziali, sebbene in forme contraddittorie ed ambigue, un legame privilegiato tra madri e figlie. 

Nella mia stessa famiglia, e in tutte quelle che conoscevo, una parte della dote – quella migliore, mai usata nell’attesa dell’occasione giusta – passava da madre in figlia: se il cognome cambiava, l’impronta della nuova famiglia conservava il gusto, lo stile, l’operosità delle donne della famiglia della sposa. Non poteva stupirmi aver verificato, nelle lunghe ore di Biblioteca e d’Archivio, una subordinazione della donna napoletana del primo Settecento, non diversa da quella di altre città europee a cominciare da Parigi. Ma tutto quel lavoro di ricerca era come percorso da un senso di allegria, che, a rileggerla, sento ancora adesso. Lo stesso che si avverte in certe albe quando il cielo comincia appena a dorarsi di nuove attese. Quello che provava una ragazza nata e vissuta nell’estremo sud, che poteva frequentare – e non era certo sola, c’erano già tante giovani donne – redazioni, biblioteche e archivi. E mettersi a scrivere di altre donne o di che cosa le veniva in mente. Lo avvertivo come un dato di fatto, qualcosa di scontato. Ma non mi era ignoto che era una novità, che tra me e mia madre (dieci volte più intelligente di me) c’era un quindicennio di scuola in più, che stavo dentro un cambiamento epocale. Col sentimento /al punto in cui il mondo si rinnova, secondo versi di Pier Paolo Pasolini che mi sono particolarmente cari. Tra le prime generazioni di donne che avevano il diritto di decidere di se stesse: e, per questo, intrepreti di una transizione, non priva di errori, lacrime e sangue, tra il prima e il dopo tuttora in fieri. Tra le prime davvero responsabili anche dei loro errori perché libere di commetterli. Discussi la tesi a ridosso di quel terremoto dell’80 che sconvolse molte vite. La mia prese un verso differente, ma per una gravidanza, vissuta quasi tutta a letto. Il giornalismo e la ricerca storica lasciarono, poi, il posto ad un lavoro cui non avevo pensato. Andai a insegnare a Nisida. Ma, quella, come direbbe qualcuno, è un’altra storia.







1 commento:

  1. Sei entrata nella vita e nei drammi di centinaia di persone, hai smascherato leggi e usanze tristi e atroci, hai eseguito una ricerca talmente profonda e coinvolgente da segnarti per tutta la vita, e sconvolgere anche chi la legge.

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