Agnese si guardò allo
specchio e si vide strana. I capelli che, per anni, erano sembrati mesciati da
un parrucchiere di razza, in meno di due settimane s’erano ingrigiti, dando
come una forma nuova al volto. Effetto ritardato, forse, dei mesi di clausura da
covid 19 o, più credibilmente, dal prossimo compleanno che l’avvicinava ai
settanta.
Non era, però, per
l’invecchiamento del corpo che avvertiva una squietudine snervante, ma per il
senso d’aver mancato il suo compito con la vita.
Alla fine si muore davvero,
dopo tutta la serie di sconfitte che, della morte, non sono che la
preparazione. L’unica differenza vera è quel po’ di vita che ciascuno riesce a
costruire e, morendo, a lasciare in eredità.
Lei, che avrebbe
lasciato?
Qualche libreria piena,
qualche scritto, qualche stanza disordinata.
Ma, di vita, poca o
niente.
Senza volere, avvertiva
chiudersi lo stomaco per ogni piccolo segno di vita altrui: come fosse un
rimprovero ai suoi fallimenti. Quando più si sentiva dentro una sconfitta – di
cui era, se non totale artefice, certo complice accurata – sprofondava nel
vagheggiare una morte dolce che, compassionevole, la liberasse da un’attesa
troppo lunga e dolente. Salvo a vergognarsene per rispetto a chi nella
sofferenza, magari atroce, continuava a vivere. E annaspava cercando di stare
in piedi: di continuare a giocare la partita, con dignità, anche se, quasi al
settantesimo, aveva già quattro gol (autogol) sul groppone.
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