Anna Karenina è un
personaggio femminile di eccezionale bellezza e di straordinaria verità. L’ha
inventata un uomo, come decine e decine di protagoniste e comprimarie –
indubitabilmente, assolutamente donne – create dalla fantasia, maschile, di un
autore.
L’unico momento discusso
sul web della premiazione d’uno Strega abbondantemente annunciato è stato il
siparietto del sorriso ironico e degli “auguri” beffardi di una scrittrice,
dell’imbarazzo d’un presentatore, e del “ha ragione, ma non troppo” di un
intellettuale - scrittore. Tema: possono gli uomini discutere del Metoo e, di
conseguenza, possono gli uomini parlare, sensatamente, di donne o solo le donne
possono parlare di se stesse?
Che non si chieda anche
all’unica autrice presente che cosa pensa dell’argomento è una scortesia. Pensare
che un uomo, qualunque cosa dica, abbia una incapacità a priori di dirne
decentemente è un errore.
Qualche volta, ma
raramente, testimonianza e narrazione si identificano: la sostanza riesce a
farsi forma. Più spesso, restano cose distinte. Il contadino d’Aspromonte, il
minatore del Sulcis, la casalinga di Voghera hanno un’esperienza del loro
lavoro che è loro propria: sta scritta nelle loro mani e nelle loro rughe:
nessuno la può testimoniare come loro stessi. Ma chi fa passare/alzare quella
singola testimonianza, quella singola esperienza a emozione universale è una
narrazione: fatta da loro in qualche, sporadico, caso, e, più spesso, da uno
che, magari, mai ha visto quei luoghi, mai ha vissuto quei tempi, che è un uomo
che parla di una donna o una donna di un uomo.
Per secoli, sono stati
solo gli uomini a narrare le donne, quando loro stesse non potevano scrivere e, tantomeno, pubblicare. Fanno, quindi, molto bene, ora, le donne a parlare di
se stesse, a esplorare ogni parte di sé. Ma molto bene fanno a narrare anche
gli uomini, a “restituirli” secondo il loro sguardo.
Uno scrittore/una
scrittrice – ma vale per un intellettuale, con e senza apostrofo – può spaziare
sull’universo mondo: non c’è una legge che, in narrativa, stabilisca che un
autore, “borghese” per modesto benessere, debba occuparsi solo di borghesia più
o meno decadente e non è che ad occuparsi di gialli bisogna avere esperienze di
omicidi.
Se sei un uomo puoi
inventarti Natascia Rostova. Se sei una donna puoi raccontare l’imperatore
Adriano.
È chiaro che nessuno più
di un ragazzo/una ragazza in carcere sa cosa voglia dire sentire un portone
chiudersi alle spalle, fare i conti con i compagni di cella, dover svolgere
attività inconsuete. Ed è anche chiaro che nessuno sa quanto me che cosa ho
vissuto io certe mattine di scuola in carcere. Esperienza simile e diversa rispetto
a quella delle stesse colleghe nelle stanze accanto – perché diversa la mia
testa, il mio cuore, ma anche il dolore alle mie ossa, la colazione fatta, il
problema lasciato a casa. Ma qualcuno può raccontarlo molto meglio di me: con
più essenziale verità.
In fondo è proprio da
questo assunto che per più di un decennio, ho provato a coordinare un
laboratorio di scrittura collettiva, inclusiva e “mediata” (ragazzi/autore). Se
poi, un giorno, magari da un autore straniero, arriverà un libro su un
insegnante in carcere capace di farmi vibrare cuore e testa, avrà raccontato – senza
volerlo e senza saperlo – anche me. E gliene sarò grata.
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