sabato 4 luglio 2020

Ma Anna Karenina l'ha scritta un uomo







Anna Karenina è un personaggio femminile di eccezionale bellezza e di straordinaria verità. L’ha inventata un uomo, come decine e decine di protagoniste e comprimarie – indubitabilmente, assolutamente donne – create dalla fantasia, maschile, di un autore.

L’unico momento discusso sul web della premiazione d’uno Strega abbondantemente annunciato è stato il siparietto del sorriso ironico e degli “auguri” beffardi di una scrittrice, dell’imbarazzo d’un presentatore, e del “ha ragione, ma non troppo” di un intellettuale - scrittore. Tema: possono gli uomini discutere del Metoo e, di conseguenza, possono gli uomini parlare, sensatamente, di donne o solo le donne possono parlare di se stesse?

Che non si chieda anche all’unica autrice presente che cosa pensa dell’argomento è una scortesia. Pensare che un uomo, qualunque cosa dica, abbia una incapacità a priori di dirne decentemente è un errore.

Qualche volta, ma raramente, testimonianza e narrazione si identificano: la sostanza riesce a farsi forma. Più spesso, restano cose distinte. Il contadino d’Aspromonte, il minatore del Sulcis, la casalinga di Voghera hanno un’esperienza del loro lavoro che è loro propria: sta scritta nelle loro mani e nelle loro rughe: nessuno la può testimoniare come loro stessi. Ma chi fa passare/alzare quella singola testimonianza, quella singola esperienza a emozione universale è una narrazione: fatta da loro in qualche, sporadico, caso, e, più spesso, da uno che, magari, mai ha visto quei luoghi, mai ha vissuto quei tempi, che è un uomo che parla di una donna o una donna di un uomo.

Per secoli, sono stati solo gli uomini a narrare le donne, quando loro stesse non potevano scrivere e, tantomeno, pubblicare. Fanno, quindi, molto bene, ora, le donne a parlare di se stesse, a esplorare ogni parte di sé. Ma molto bene fanno a narrare anche gli uomini, a “restituirli” secondo il loro sguardo.

Uno scrittore/una scrittrice – ma vale per un intellettuale, con e senza apostrofo – può spaziare sull’universo mondo: non c’è una legge che, in narrativa, stabilisca che un autore, “borghese” per modesto benessere, debba occuparsi solo di borghesia più o meno decadente e non è che ad occuparsi di gialli bisogna avere esperienze di omicidi.

Se sei un uomo puoi inventarti Natascia Rostova. Se sei una donna puoi raccontare l’imperatore Adriano.

È chiaro che nessuno più di un ragazzo/una ragazza in carcere sa cosa voglia dire sentire un portone chiudersi alle spalle, fare i conti con i compagni di cella, dover svolgere attività inconsuete. Ed è anche chiaro che nessuno sa quanto me che cosa ho vissuto io certe mattine di scuola in carcere. Esperienza simile e diversa rispetto a quella delle stesse colleghe nelle stanze accanto – perché diversa la mia testa, il mio cuore, ma anche il dolore alle mie ossa, la colazione fatta, il problema lasciato a casa. Ma qualcuno può raccontarlo molto meglio di me: con più essenziale verità. 

In fondo è proprio da questo assunto che per più di un decennio, ho provato a coordinare un laboratorio di scrittura collettiva, inclusiva e “mediata” (ragazzi/autore). Se poi, un giorno, magari da un autore straniero, arriverà un libro su un insegnante in carcere capace di farmi vibrare cuore e testa, avrà raccontato – senza volerlo e senza saperlo – anche me. E gliene sarò grata.

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