Resistette, attenta, fino
all’omelia. Poi, Nora si perse nei suoi pensieri. Le tornava in mente un esame
di una cinquantina d’anni prima. Filosofia teoretica. Il programma prevedeva un
bel po’ di libroni e la prima metà di un testo del professore, stampato alla
meno peggio ma dalla rigida copertina rossa. Agli esami, il professore aveva
aperto quel testo nella seconda metà e le aveva fatto legger un lungo brano.
Che vuol dire? aveva chiesto. Lei aveva risposto: Ci sono due modi di
eternarsi. Per l’artista, creare un’opera. Per l’uomo comune avere un figlio.
Aveva avuto 30 e lode: meritato per lo studio che aveva fatto, ma che non le
era sembrato deporre troppo bene a favore del professore. Non ne aveva mai
seguito una lezione e, al contrario di quanto sosteneva una sua compagna,
considerò che non aveva perso niente.
Fu il peso del silenzio,
denso, raccolto, a riscuoterla da pensieri che, insieme, nascondevano e
rivelavano il motivo di una lacerazione che le stracciava la mente ormai da
tempo. Per un istante, Nora osservò il prete che, apprestandosi alla comunione,
stava indossando una mascherina dello stesso verde della pianeta e si chiese se
fosse un caso o se ne avesse una adatta per ogni colore liturgico. Le donne
tirarono fuori dalle borsette il gel per le mani. Due sorelle, che aveva visto
sempre sedute una accanto all’altra, stavano a distanza, secondo norma. Ne
provò una fitta al cuore, come d’una povertà immeritata. E le vennero agli
occhi, subito ricacciate, lacrime per tutto ciò che non era o non era più.
Nella domenica in cui
compiva settanta anni, le mancava un nipote. Possibilità irreale visto che non
aveva neppure figli. Aveva avuto un lavoro interessante che le aveva dato più
di una soddisfazione, un modesto benessere, e l’apprezzamento di tanti: ci
aveva nascosto dentro un senso costante d’inadeguatezza alla vita, un vuoto
tappato a forza aggiungendo compiti ai compiti, e un sotterraneo desiderio di
morte che la liberasse da se stessa.
Nei mesi duri della
pandemia, aveva ridotto le sue esigenze. Pranzi e cene abborracciati con quel
che si trovava in casa. Poche telefonate alle persone con cui più trattava.
Tanto internet. Un piccolo studio sul passato del suo paese. Più volte aveva
pensato che la virtù più grande fosse apprendere a vivere soli. Non isolati,
perché, nel cuore, la compassione si allargava per tutti. E aveva dato non
pochi soldi alla Caritas per i pacchi ai più poveri e non aveva mancato di fare
piccoli servizi a vicini, amici e nemici del tempo normale. Soli, però: liberi
da responsabilità dirette verso qualcuno.
Ora, lasciare il mondo
senza una traccia di sé le pareva una mancanza assoluta, un vuoto bruciante. Un
peccato, forse. Un errore, certo.
S’era sempre chiesta
perché raramente, se non mai, s’era sentita in pace più di qualche minuto dopo
una confessione. Solo due anni prima aveva avuto un’intuizione che non era però
riuscita a portare a livello di pensiero cartesianamente chiaro e distinto. Che
tra il peccato e l’errore, il secondo è peggio. Perché il peccato, confessato,
viene perdonato; ma l’errore, pur riconosciuto, continua a produrre i suoi
effetti perversi. La sua vita senza vita, Dio poteva perdonarla. Ma, a meno di
un miracolo, non sarebbe cambiato niente nella mancanza che adesso traboccava
fino a sommergerla.
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