lunedì 20 luglio 2020

Microstorie: Il peccato e l'errore






Resistette, attenta, fino all’omelia. Poi, Nora si perse nei suoi pensieri. Le tornava in mente un esame di una cinquantina d’anni prima. Filosofia teoretica. Il programma prevedeva un bel po’ di libroni e la prima metà di un testo del professore, stampato alla meno peggio ma dalla rigida copertina rossa. Agli esami, il professore aveva aperto quel testo nella seconda metà e le aveva fatto legger un lungo brano. Che vuol dire? aveva chiesto. Lei aveva risposto: Ci sono due modi di eternarsi. Per l’artista, creare un’opera. Per l’uomo comune avere un figlio. Aveva avuto 30 e lode: meritato per lo studio che aveva fatto, ma che non le era sembrato deporre troppo bene a favore del professore. Non ne aveva mai seguito una lezione e, al contrario di quanto sosteneva una sua compagna, considerò che non aveva perso niente.

Fu il peso del silenzio, denso, raccolto, a riscuoterla da pensieri che, insieme, nascondevano e rivelavano il motivo di una lacerazione che le stracciava la mente ormai da tempo. Per un istante, Nora osservò il prete che, apprestandosi alla comunione, stava indossando una mascherina dello stesso verde della pianeta e si chiese se fosse un caso o se ne avesse una adatta per ogni colore liturgico. Le donne tirarono fuori dalle borsette il gel per le mani. Due sorelle, che aveva visto sempre sedute una accanto all’altra, stavano a distanza, secondo norma. Ne provò una fitta al cuore, come d’una povertà immeritata. E le vennero agli occhi, subito ricacciate, lacrime per tutto ciò che non era o non era più.

Nella domenica in cui compiva settanta anni, le mancava un nipote. Possibilità irreale visto che non aveva neppure figli. Aveva avuto un lavoro interessante che le aveva dato più di una soddisfazione, un modesto benessere, e l’apprezzamento di tanti: ci aveva nascosto dentro un senso costante d’inadeguatezza alla vita, un vuoto tappato a forza aggiungendo compiti ai compiti, e un sotterraneo desiderio di morte che la liberasse da se stessa.

Nei mesi duri della pandemia, aveva ridotto le sue esigenze. Pranzi e cene abborracciati con quel che si trovava in casa. Poche telefonate alle persone con cui più trattava. Tanto internet. Un piccolo studio sul passato del suo paese. Più volte aveva pensato che la virtù più grande fosse apprendere a vivere soli. Non isolati, perché, nel cuore, la compassione si allargava per tutti. E aveva dato non pochi soldi alla Caritas per i pacchi ai più poveri e non aveva mancato di fare piccoli servizi a vicini, amici e nemici del tempo normale. Soli, però: liberi da responsabilità dirette verso qualcuno.
Ora, lasciare il mondo senza una traccia di sé le pareva una mancanza assoluta, un vuoto bruciante. Un peccato, forse. Un errore, certo.

S’era sempre chiesta perché raramente, se non mai, s’era sentita in pace più di qualche minuto dopo una confessione. Solo due anni prima aveva avuto un’intuizione che non era però riuscita a portare a livello di pensiero cartesianamente chiaro e distinto. Che tra il peccato e l’errore, il secondo è peggio. Perché il peccato, confessato, viene perdonato; ma l’errore, pur riconosciuto, continua a produrre i suoi effetti perversi. La sua vita senza vita, Dio poteva perdonarla. Ma, a meno di un miracolo, non sarebbe cambiato niente nella mancanza che adesso traboccava fino a sommergerla.

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