«Il 1 luglio 2017,
dopo anni di critiche, attese deluse, confronti aspri, nel salone delle
cerimonie della prefettura di Reggio Calabria, fu firmato l’accordo quadro del
progetto Liberi di scegliere. Prendeva finalmente vita quello che fino a poco
tempo prima appariva come un sogno irrealizzabile, l’illusione di poche
persone, che aveva suscitato non poche critiche anche all’interno della stessa
magistratura. (…) All’inizio della mia carriera, certamente non avrei
immaginato di arrivare fino a questo punto. Ero timido, impacciato, preoccupato
per la nuova avventura professionale. Quando nel 2012 cominciai a scrivere (…)
i primi provvedimenti a tutela dei minori di ‘ndrangheta, il pensiero era
rivolto alle singole situazioni. L’orizzonte era molto limitato e non
immaginavo che alle attività di un piccolo tribunale di frontiera si sarebbero
interessati in molti, da tutte le parti del mondo. Non potevo pensare che un
giorno ci sarebbe stata la copertura governativa a un orientamento
giurisprudenziale molto discusso con la firma di due ministri, quello
dell’Interno e quello della Giustizia, per un progetto sperimentale: la
realizzazione di pool educativi antimafia. Con la formazione mirata di tutti
coloro – giudici, assistenti sociali, psicologi, forze dell’ordine – che a
vario titolo dovranno occuparsi degli sfortunati figli delle mafie e dei loro
genitori che accettano i percorsi rieducativi.»
Lasciando a scadenza naturale il ruolo di
presidente del Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella firma
una sorta di memoriale della sua straordinaria esperienza in un volume scritto
insieme a Monica Zappelli, Liberi di
scegliere. La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi della
‘ndrangheta, edito da Rizzoli.
Un’esperienza, iniziata quasi come un
unicum di un piccolo tribunale di provincia, per quanto di frontiera, e
diventata recentemente normativa con la firma di un protocollo d’intesa
interistituzionale, con la partecipazione anche di Libera e della Conferenza
episcopale italiana.
Favorevoli e contrari alle scelte di Di
Bella – sintetizzabili, anche se in maniera riduttiva, nella decisione di
allontanare dalla Calabria decine di figli di ‘ndrangheta, talora insieme alle
loro madri – si trovano immersi, in queste pagine, nelle vicende dolorose e
drammatiche, che hanno portato lo stesso magistrato a modificare, via via, il
proprio atteggiamento:
«Davide lasciò il
mio studio. Lo seguii con lo sguardo, colpito per quell’incontro avvenuto quasi
contro la mia volontà. Per la prima volta ero stato giudice in modo diverso. Il
mio timone fino a quel momento erano sempre stati esclusivamente la legge, i
codici, l’ufficialità del mio ruolo. E la mia posizione emotiva quella di un
giudice che, pur dovendo giudicare di ragazzi, si muoveva in una terra in cui i
soprusi sofferti dalle vittime erano così enormi, e di solito privi di
risarcimento, che la mia preoccupazione era innanzitutto quella di far sentire
che lo Stato c’era, che le regole andavano rispettate, che non esistevano
connivenze o indulgenze di fronte a nessun cognome. Il dolore di Davide mi
aveva costretto a fare un passo in più. Ad andare oltre la linea che divideva
chi commetteva reati da chi li subiva, entrando in contatto con la fragilità e
la disperazione dei ragazzi delle famiglie di ‘ndrangheta. Per un attimo il
fotogramma che qualche anno prima si era sovrapposto alla figura di Vincenzo (uno
dei fratelli di Davide, già in precedenza condannato, Ndr) si era dilatato ed
era diventato un altro modo di vedere la realtà. Dall’altra parte non c’erano
dei criminali irrecuperabili, ma dei ragazzi che potevano essere aiutati. Erano
cresciuti odiando lo Stato ma la loro infelicità era così forte che un dialogo
era possibile. Bisognava solo avere il coraggio di tendere la mano.»
Emerge con chiarezza come, non nello
sforzo di applicare un principio ma nel tentativo di trovare soluzione a dolori
concreti, Di Bella arriva, insieme ai suoi colleghi, alle decisioni – assunte
tutt’altro che a cuor leggero, anzi sempre con preoccupazione e, molto spesso,
con profonda sofferenza – che l’hanno portato, dopo il 2012, sulle prime pagine
dei giornali non solo nazionali.
«Non avevo davanti
principi da difendere, ma ragazzi in carne e ossa, che andavano aiutati subito, prima di perderli. Io e i miei colleghi eravamo come chirurghi chiamati a
operare nel deserto. Sapevamo che ci vogliono le sale operatorie, le camere
sterili, le èquipe al completo. Ma non le avevamo. Se un paziente ti sta
morendo tra le mani e non hai nient’altro che te stesso, intervieni comunque,
non aspetti che costruiscano l’ospedale. Perché il paziente morirebbe.»
A questa motivazione generale, se ne
aggiunge una più personale: «C’era un’altra ragione che mi
muoveva. E riguardava il significato che avevo il dovere di dare a quella che
era la mia responsabilità individuale. Chi auspicava altri tipi di intervento
si riferiva a un’azione corale, che potesse muovere molti soggetti, la scuola,
la società civile, l’intero Paese… Ma io non avevo alcun potere di influenza su
ambiti così complessi. Io mi accontentavo di rispondere ad una domanda più
semplice, che mi scorreva dentro, silenziosa, da quando avevo conosciuto la
situazione drammatica in cui erano costretti a crescere tanti ragazzi in
Calabria: “Tu che hai fatto?”. Io, Roberto Di Bella, presidente del tribunale
per i minorenni di Reggio Calabria, che cosa avevo fatto? Avevo provato a
muovermi nei perimetri delle azioni “tradizionali” e avevo fallito. I ragazzi
che avevo giudicato avevano avuto destini crudeli e tutti già drammaticamente
prevedibili. Nel rispetto dei codici e delle leggi, dovevo assumermi il rischio
e la responsabilità di scoprire un’altra strada. Non si trattava di rieducare
nessuno. Semplicemente di mostrare a questi ragazzi che fuori dagli spazi
chiusi delle loro case esisteva un altro mondo. Non avremmo mai chiesto loro di
rinnegare i padri e le madri. Solo di domandarsi se veramente volevano per il
loro futuro la strada che le famiglie avevano scelto per loro. Se se la
sentivano di costruire una vita che dovesse sopportare ogni giorno il peso
delle perquisizioni, del carcere, della violenza. O se intendevano provare a
costruire qualcos’altro.»
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