domenica 1 dicembre 2019

Liberi di crescere di Roberto Di Bella con Monica Zappelli




«Il 1 luglio 2017, dopo anni di critiche, attese deluse, confronti aspri, nel salone delle cerimonie della prefettura di Reggio Calabria, fu firmato l’accordo quadro del progetto Liberi di scegliere. Prendeva finalmente vita quello che fino a poco tempo prima appariva come un sogno irrealizzabile, l’illusione di poche persone, che aveva suscitato non poche critiche anche all’interno della stessa magistratura. (…) All’inizio della mia carriera, certamente non avrei immaginato di arrivare fino a questo punto. Ero timido, impacciato, preoccupato per la nuova avventura professionale. Quando nel 2012 cominciai a scrivere (…) i primi provvedimenti a tutela dei minori di ‘ndrangheta, il pensiero era rivolto alle singole situazioni. L’orizzonte era molto limitato e non immaginavo che alle attività di un piccolo tribunale di frontiera si sarebbero interessati in molti, da tutte le parti del mondo. Non potevo pensare che un giorno ci sarebbe stata la copertura governativa a un orientamento giurisprudenziale molto discusso con la firma di due ministri, quello dell’Interno e quello della Giustizia, per un progetto sperimentale: la realizzazione di pool educativi antimafia. Con la formazione mirata di tutti coloro – giudici, assistenti sociali, psicologi, forze dell’ordine – che a vario titolo dovranno occuparsi degli sfortunati figli delle mafie e dei loro genitori che accettano i percorsi rieducativi.»

Lasciando a scadenza naturale il ruolo di presidente del Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria, Roberto Di Bella firma una sorta di memoriale della sua straordinaria esperienza in un volume scritto insieme a Monica Zappelli, Liberi di scegliere. La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi della ‘ndrangheta, edito da Rizzoli.

Un’esperienza, iniziata quasi come un unicum di un piccolo tribunale di provincia, per quanto di frontiera, e diventata recentemente normativa con la firma di un protocollo d’intesa interistituzionale, con la partecipazione anche di Libera e della Conferenza episcopale italiana.

Favorevoli e contrari alle scelte di Di Bella – sintetizzabili, anche se in maniera riduttiva, nella decisione di allontanare dalla Calabria decine di figli di ‘ndrangheta, talora insieme alle loro madri – si trovano immersi, in queste pagine, nelle vicende dolorose e drammatiche, che hanno portato lo stesso magistrato a modificare, via via, il proprio atteggiamento:

«Davide lasciò il mio studio. Lo seguii con lo sguardo, colpito per quell’incontro avvenuto quasi contro la mia volontà. Per la prima volta ero stato giudice in modo diverso. Il mio timone fino a quel momento erano sempre stati esclusivamente la legge, i codici, l’ufficialità del mio ruolo. E la mia posizione emotiva quella di un giudice che, pur dovendo giudicare di ragazzi, si muoveva in una terra in cui i soprusi sofferti dalle vittime erano così enormi, e di solito privi di risarcimento, che la mia preoccupazione era innanzitutto quella di far sentire che lo Stato c’era, che le regole andavano rispettate, che non esistevano connivenze o indulgenze di fronte a nessun cognome. Il dolore di Davide mi aveva costretto a fare un passo in più. Ad andare oltre la linea che divideva chi commetteva reati da chi li subiva, entrando in contatto con la fragilità e la disperazione dei ragazzi delle famiglie di ‘ndrangheta. Per un attimo il fotogramma che qualche anno prima si era sovrapposto alla figura di Vincenzo (uno dei fratelli di Davide, già in precedenza condannato, Ndr) si era dilatato ed era diventato un altro modo di vedere la realtà. Dall’altra parte non c’erano dei criminali irrecuperabili, ma dei ragazzi che potevano essere aiutati. Erano cresciuti odiando lo Stato ma la loro infelicità era così forte che un dialogo era possibile. Bisognava solo avere il coraggio di tendere la mano.»

Emerge con chiarezza come, non nello sforzo di applicare un principio ma nel tentativo di trovare soluzione a dolori concreti, Di Bella arriva, insieme ai suoi colleghi, alle decisioni – assunte tutt’altro che a cuor leggero, anzi sempre con preoccupazione e, molto spesso, con profonda sofferenza – che l’hanno portato, dopo il 2012, sulle prime pagine dei giornali non solo nazionali.

«Non avevo davanti principi da difendere, ma ragazzi in carne e ossa, che andavano aiutati subito, prima di perderli. Io e i miei colleghi eravamo come chirurghi chiamati a operare nel deserto. Sapevamo che ci vogliono le sale operatorie, le camere sterili, le èquipe al completo. Ma non le avevamo. Se un paziente ti sta morendo tra le mani e non hai nient’altro che te stesso, intervieni comunque, non aspetti che costruiscano l’ospedale. Perché il paziente morirebbe.»

A questa motivazione generale, se ne aggiunge una più personale: «C’era un’altra ragione che mi muoveva. E riguardava il significato che avevo il dovere di dare a quella che era la mia responsabilità individuale. Chi auspicava altri tipi di intervento si riferiva a un’azione corale, che potesse muovere molti soggetti, la scuola, la società civile, l’intero Paese… Ma io non avevo alcun potere di influenza su ambiti così complessi. Io mi accontentavo di rispondere ad una domanda più semplice, che mi scorreva dentro, silenziosa, da quando avevo conosciuto la situazione drammatica in cui erano costretti a crescere tanti ragazzi in Calabria: “Tu che hai fatto?”. Io, Roberto Di Bella, presidente del tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, che cosa avevo fatto? Avevo provato a muovermi nei perimetri delle azioni “tradizionali” e avevo fallito. I ragazzi che avevo giudicato avevano avuto destini crudeli e tutti già drammaticamente prevedibili. Nel rispetto dei codici e delle leggi, dovevo assumermi il rischio e la responsabilità di scoprire un’altra strada. Non si trattava di rieducare nessuno. Semplicemente di mostrare a questi ragazzi che fuori dagli spazi chiusi delle loro case esisteva un altro mondo. Non avremmo mai chiesto loro di rinnegare i padri e le madri. Solo di domandarsi se veramente volevano per il loro futuro la strada che le famiglie avevano scelto per loro. Se se la sentivano di costruire una vita che dovesse sopportare ogni giorno il peso delle perquisizioni, del carcere, della violenza. O se intendevano provare a costruire qualcos’altro.»

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