Tocca
a te, ha detto il maestro. Angelo s’è fermato un attimo, ha
visto che non c’era traccia di presa in giro né nella voce né nella faccia del
maestro e ha fissato l’angelo sopra la capanna. E anche questo è pronto. Uno scoglio,
di sughero, cortecce e pietre, con pochi pastori, una natività essenziale, che si
aggiunge a decine di presepi.
Anch’io sono un angelo,
anzi una testa d’angelo. M’ha fissata in alto, su una parete, la maestra
Raffaella più di dieci anni fa e, da allora, ne ho visti fare decine e decine,
di presepi. Quelli su tegole o tegoline, da appendere. Quelli più grandi con
montagne e ruscelli, e resti antichi e scale e viuzze e lavandaie, venditrici d’uova,
pescatori, macellai, fabbri e calzolai, e pecore, oche e galline. Quelli ambientati
sotto il Vesuvio e a Piazza Plebiscito. Quelli particolari. Ce n’è uno, in cui
la capanna è una chiesa. E un altro con una moschea dalla tonda cupola gialla e
un cortile a mattonelline azzurre che sa di Medio Oriente. Tanti venduti, tanti
regalati alle autorità. La maestra Francesca ne ha guardato uno per anni – Quando vado in pensione me lo porto a casa
– e non ci poteva pensare quando, invece, è stato portato in una di quelle che si
chiamano sedi istituzionali.
Ce n’è uno firmato. Ogni
tanto me la vado a rivedere, quella firma. Luca
de Filippo. Che è come se Eduardo ci avesse regalato Natale a casa Cupiello. Anche se non l’ho mai vista, la commedia la
conosco tutta. Ogni anno la fanno vedere a scuola. Qualcuno dice d’essersi
scocciato – è una storia vecchia – ma,
quando tornano in laboratorio, se lo ripetono tutti, ridendo: Te piace o presepe? No. Ma io non mi faccio capace! Ma lo capisci che il Presepio è una
cosa religiosa? Una cosa religiosa con l’“interoclisemo” dietro? Come si
ripetono la storia degli spiriti perché
anche Dickens fa parte della tradizione
della casa.
Sullo spirito del Natale avrei qualcosa da
dire. Forse l’ho sempre saputo, ma le parole per dirmelo mi sono apparse oggi,
quando il maestro del laboratorio edile è venuto a comprare un presepe e ha
lasciato dei fogli. Il papa ha scritto
una lettera sul presepe. Se vi va di leggerla…
Ma
io non credo al papa, ha detto Giuseppe. Neppure io, ha detto Francesco. Io sì, ha replicato Pio. Come non
avevano mai fatto, si sono messi a parlare di Dio, della vita e della morte, del
paradiso e dell’inferno. E io ho pensato che il presepe vero erano loro. Loro e
tutta l’isola. Da nessuna parte, in questa città, si potrebbe fare un presepe
vivente più bello che qui. Con i laboratori-botteghe. Compreso questo d’arte presepiale. E le ragazze e i ragazzi.
E gli alberi, gli animali, la torre antica e i tanti pastori possibili, dal cuoco all’agente dal medico, dalla psicologa
al maestro di musica, dal volontario al pasticcere.
Ecco. Non mi devo lasciar
distrarre dal profumo che arriva dalla pasticceria. Questo insieme di pandoro,
panettone, struffoli, roccocò che il venticello diffonde fa parte degli spiriti
inebrianti del Natale. Ma ce n’è uno più profondo.
Natale è attesa. Di luce,
di calore, di tenerezza. È lo stupore, come ha detto qualcuno senza pensare al
Natale, di avere in sé, nel freddo dell’inverno, un’invincibile estate. L’attesa,
dicono, è quella dell’Avvento. E, quindi, il Natale, sarebbe un arrivo, una
conclusione. E, invece, è la pienezza dell’Attesa. E chi, più e meglio di tutti
attende? Le donne col pancione. I malati in ospedale. Chi attraversa il mare.
E quelli che stanno in
carcere.
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