Aniello ha mani sudate e
grandi. Quando mi stringe, mi attraversa un brivido di gelo. Il suo sudore è
freddo. Guarda verso il mare e si finge orgoglioso di un’altra giornata al di
là delle sbarre: come il padre che neppure ricorda, gli zii e i fratelli più
grandi; com’è stato in passato e come potrà di nuovo accadere in futuro.
Io
la galera, me la so fare, non come te. Il tono è di sfida, lo
sguardo sornione.
Te
è
Luigi. Che fino a qualche mese fa è stato allegro e spensierato. Rideva quando,
le mani veloci e leggere, mi allacciava intorno le sneakers a prendere aria. La
sua vita da ladro semplice – nessun
gallone di sistema – era la sua
polizza sicurezza. Ogni tanto un po’ di mesi di carcere e di nuovo fuori, a
godersi le scorribande in moto e le donne – che lui, di ragazze ne cambia
tante, ma tutte più grandi di lui, e di parecchio. Poi è arrivata l’accusa
d’aver provocato una ferita grave ad una vecchietta. Accusa falsa, facilmente
smontabile dal suo avvocato. Ma gli è scesa addosso un’inattesa pucundria. Ha un bambino di tre anni. Da
sbandierare come un certificato d’essere grande, d’essere uomo. E che,
improvvisamente, è diventato un cruccio. E se, crescendo, diventerà come lui? E
se un giorno gli chiederà conto del perché l’ha messo al mondo, tra una
carcerazione e l’altra? Pensieri, inattesi, che lo turbano e gli hanno fatto le
mani lente e pesanti.
A Emanuele il sangue sale
facile alla testa, ma in un niente torna a ridere, a scherzare. È quello che mi
sta più addosso. Ha scoperto il quadrato da cui si riesce meglio a intravvedere
un altro quadrato. Che corrisponde alla stanza di Laura, Rita ed Anna. Emanuele
ha cominciato a scriversi con Anna, poi con Rita, adesso con Laura. Le ragazze
hanno litigato tra loro, poi hanno fatto pace, perché Rita ha cominciato a
scriversi con Giuseppe e Anna con Ciro. Emanuele e Laura si dicono fidanzati.
La sera si danno la buonanotte con gli accendini. Emanuele con una mano cerca
l’equilibrio perfetto e, con l’altra, mi solletica con la fiammella. Se Laura
scrivesse ad un altro del carcere, farebbe il geloso. Forse, lo sarebbe
davvero. Ma sa bene che è una cosa giusto per passare il tempo. Lui aveva una
ragazza, l’ha lasciata quando è finito in carcere. Manuela era troppo bella e
lui non poteva stare lì a farsi il sangue amaro a immaginare che lei, magari,
lo tradisse. Quando tornerà libero cercherà una ragazza tranquilla, che il
carcere lo conosce per le sale colloqui, al padre e al fratello, ma mai
potrebbe varcarne i cancelli. E ci farà un figlio, subito.
Io, i ragazzi li
riconosco dalle mani. Come fossi un rilevatore di impronte digitali. Distinguo
le mani sincere da quelle bugiarde, le incerte dalle impostore. A partire dal
calore. Non dai gradi, come fossi un termometro. Dalla qualità. Non sento la
febbre del corpo, misuro il veleno e la linfa buona che scorre nelle vene. Ci
sono mani che mi afferrano come se volessero spezzarmi. Mani che mi si aggrappano
addosso perché un limite a quadretti contiene, ma lascia uno spiraglio. Mani di
chi poggia anche la fronte e di chi resta discosto. Mani di chi sembra riuscire
ad affacciarsi come se fosse una finestra qualsiasi ed io non esistessi. Mani di
chi almeno una volta sogna di scappare – e che ci vuole? Si segano le sbarre e
si scende giù con un lenzuolo, oppure si salta: noi siamo giovani e forti. Mani
di chi nasconde una lacrima dietro un granello portato dal vento, di chi saluta
tutti quelli che passano sotto il reparto, e di chi guarda e tace.
Peso, del calore,
l’insofferenza e il disorientamento, l’effervescenza e l’abbattimento, la noia
e il desiderio. E, per ognuno, divento quello di cui ha bisogno. Bastone
d’acciaio e liana di Tarzan. Fino a scomparire. Come una balaustra di brezza.
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