Pomeriggio di fine
dicembre, tra il Natale da poco passato e il Capodanno molto vicino. Una scuola
di periferia aperta, con ragazzini di prima, seconda e terza media che leggono
testi tratti da Il bacio del pane di
Carmine Abate e da Pane nostro e Breviario mediterraneo di Predrag
Matvejevic, accompagnati dalle loro insegnanti, dalla vicepreside, Elisabetta
Chinnì e dalla dirigente scolastica, Eva Nicolò, cui un braccio recentemente rotto
non toglie un grammo di entusiasmo e passione educativa.
Introdotto da Giuseppe
Laganà, il Pellaro Libri Inverno 2019, centrato
su Il pane e altri lavori, ha avuto
come prima protagonista la scuola (i ragazzi, gli insegnanti, il personale Ata,
i genitori).
L’incontro oltre che nel Reading degli alunni, si è articolato in
un mio intervento su Donne e lavoro nelle
campagne pellaresi nella prima metà del Novecento (con accenni letterari).
Pubblico folto, attento e partecipe.
Alla fine, condivisione
del pane offerto dal panificio Paolo Malara, irrorato, secondo tradizione, d’olio
e bagnato da un bicchiere di vino.
Riprese fb di Paolo
Coppola
Questa è la seconda parte del mio intervento:
I lavori di cui abbiamo parlato sono entrati nella
nostra letteratura? Certo che sì.
Delle gelsominaie, per
esempio, ha scritto ampiamente Gioacchino Criaco ne La maligredi, libro ambientato ad Africo e dintorni: «Le nostre
madri che erano mamme di gelsomino, fate a colori che ogni notte estiva
l’accendevano come lucciole: contavano ottomila gemme bianche, raccolte
delicatamente per non sciuparle, e le depositavano con cautela nel sacco di
lino o nella cesta di junco. (…) Da mezzanotte a giorno fatto cantavano in
mezzo ai filari di gelsomino per ingannare come sirene quei timidi vampiri
bianchi che si richiudevano nelle loro bare profumate per sfuggire a un sole,
per loro, mortale. Ottomila fiori ci volevano per fare un chilo, e le donne li
contavano perché i padroni non le imbrogliassero sul peso; le campionesse
arrivavano a quarantamila per notte, per riportarsi a casa quelle poche lire
buone a riempire le pance dei figli. Solo chi le ha odorate, quelle albe dense
di ritorni profumati, sa quanto eroismo c’è stato nelle madri calabresi.»
Il pane – alimento al
centro di bellissimi testi in poesia e in prosa della letteratura mondiale –
trova pagine significative anche nella narrativa calabrese recente, per esempio
in Cola Ierofani di Giuseppe Mario Tripodi, ambientato nei dintorni di Melito,
e ne Il bacio del pane di Carmine
Abate, che già nel titolo richiama il rapporto sacro delle generazioni che ci
hanno preceduto con questo alimento.
Una sacralità cui il
croato Predrag Matvejevic ha dedicato un testo fondamentale, Pane nostro. Da questo e da un altro suo
bellissimo libro, Breviario mediterraneo,
i ragazzi a leggeranno dei passi. Matvejevic, tra l’altro, aveva una grande
passione per la Calabria: «La Calabria è una terra strana, in realtà è quasi
un’isola, una passerella alta e stretta tra due mari, un bivio che prepara la
strada verso il Mediterraneo profondo, il salto verso la Sicilia. È una terra
di confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si
lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è più vicino alla terra che in
tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati, è vicino a
tutto, ha qualcosa di dilagante, inarginabile, è il Mediterraneo che illumina
anche le montagne, che porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla
grandezza della Sila. Mi piace la Calabria.»
Tornando al pane nella
letteratura calabrese, vorrei ricordare ancora almeno Corrado Alvaro che, anche
nei sassi dei nostri torrenti, riusciva a vedere forme di pane e alcune
memorabili scene di Noi lazzaroni di Saverio Strati dove il pane, preparato dalla madre, viene
suddiviso con dolore e, anche, con sguardo torvo, calcolando quanto ognuno ne
può mangiare da lì alla successiva infornata: troppo poco sia per il figlio che
deve portarlo lontano al lavoro sia per chi resta a casa.
Naturalmente, la
letteratura calabrese sia quella del Novecento che quella più recente, oltreché
al pane, ha dato e continua a dare ampio spazio ai lavori dei campi (per
esempio, Mimmo Gangemi ha dedicato pagine bellissime agli uliveti) e alle
tradizioni della civiltà contadina che, per lungo tempo, hanno contrassegnato
la nostra terra.
C’è molto, però, che non
è stato ancora raccontato e che aspetta di trovare voce. Ed è bello che a
scuola ci si appropri del nostro passato perché solo ciò che viene narrato può
diventare memoria collettiva e rafforzare un senso di identità, che non è
contrapposizione ad altri, ma linfa per guardare con rinnovata forza e maggiore
spirito d’accoglienza al futuro.
Mi
avvio a concludere con una piccola nota su Pellaro. Il suo nome si trova in
testi della letteratura classica: secondo una glossa di Esichio, esso è in
rapporto o in derivazione da pella,
che significa pietra, con allusione alla pietra calcarea locale e del vicino
promontorio di Leucopetra o Capo dell’armi. Ma si trova anche nella narrativa
più recente. È pellarota la protagonista di un libro, non il suo migliore in
verità, del grande Mario La Cava, Mimì
Cafiero, (1959) che così la introduce: «Stava Lina Montevergine appoggiata al balcone della
sua casa in Pellaro, tra i garofani che erano già in piena fioritura.» E Pellaro è più volte è citata in Noi credevamo (1967) di Anna Banti, uno
dei romanzi più belli sul nostro Risorgimento, dove il protagonista dedica
queste parole alla Calabria: «Se
mi riconosco una patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida,
dove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato. (…) Essa
è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e intatta nel
passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al suo male:
tanti ne ha visti, tanti ne vedrà senza batter ciglio, il privilegio dei
disperati.»
E chiudo
davvero con una poesia recente del più noto poeta vivente italiano, Franco
Arminio:
Amo l’Italia
armena,
l’Italia antica,
amo la Calabria,
il paesaggio
non confezionato,
la faccia di chi cammina
nel secolo sbagliato.
Amo la Calabria
a Palmi un po’ algerina
finlandese sulla Sila.
Amo il mare che si getta
nel treno, i pesci
sull’asfalto, le case parcheggiate
anche negli occhi
dei gabbiani.
Non conosco una terra
più sensuale,
un disordine più esemplare,
una grazia più oltraggiata.
Questa non è una regione
è un altare.
armena,
l’Italia antica,
amo la Calabria,
il paesaggio
non confezionato,
la faccia di chi cammina
nel secolo sbagliato.
Amo la Calabria
a Palmi un po’ algerina
finlandese sulla Sila.
Amo il mare che si getta
nel treno, i pesci
sull’asfalto, le case parcheggiate
anche negli occhi
dei gabbiani.
Non conosco una terra
più sensuale,
un disordine più esemplare,
una grazia più oltraggiata.
Questa non è una regione
è un altare.
Ringrazio le colleghe che hanno proposto, per la lettura dei loro
allievi, insieme ai testi di Abate e di Matvejevic, un mio raccontino,
intitolato Il pane bollito.
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