venerdì 27 dicembre 2019

Pellaro Libri Inverno 2019: protagonista la Scuola






Pomeriggio di fine dicembre, tra il Natale da poco passato e il Capodanno molto vicino. Una scuola di periferia aperta, con ragazzini di prima, seconda e terza media che leggono testi tratti da Il bacio del pane di Carmine Abate e da Pane nostro e Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic, accompagnati dalle loro insegnanti, dalla vicepreside, Elisabetta Chinnì e dalla dirigente scolastica, Eva Nicolò, cui un braccio recentemente rotto non toglie un grammo di entusiasmo e passione educativa.

Introdotto da Giuseppe Laganà, il Pellaro Libri Inverno 2019, centrato su Il pane e altri lavori, ha avuto come prima protagonista la scuola (i ragazzi, gli insegnanti, il personale Ata, i genitori). 

L’incontro oltre che nel Reading degli alunni, si è articolato in un mio intervento su Donne e lavoro nelle campagne pellaresi nella prima metà del Novecento (con accenni letterari).

Pubblico folto, attento e partecipe.

Alla fine, condivisione del pane offerto dal panificio Paolo Malara, irrorato, secondo tradizione, d’olio e bagnato da un bicchiere di vino.

Riprese fb di Paolo Coppola




Questa è la seconda parte del mio intervento:

I lavori di cui abbiamo parlato sono entrati nella nostra letteratura? Certo che sì.
Delle gelsominaie, per esempio, ha scritto ampiamente Gioacchino Criaco ne La maligredi, libro ambientato ad Africo e dintorni: «Le nostre madri che erano mamme di gelsomino, fate a colori che ogni notte estiva l’accendevano come lucciole: contavano ottomila gemme bianche, raccolte delicatamente per non sciuparle, e le depositavano con cautela nel sacco di lino o nella cesta di junco. (…) Da mezzanotte a giorno fatto cantavano in mezzo ai filari di gelsomino per ingannare come sirene quei timidi vampiri bianchi che si richiudevano nelle loro bare profumate per sfuggire a un sole, per loro, mortale. Ottomila fiori ci volevano per fare un chilo, e le donne li contavano perché i padroni non le imbrogliassero sul peso; le campionesse arrivavano a quarantamila per notte, per riportarsi a casa quelle poche lire buone a riempire le pance dei figli. Solo chi le ha odorate, quelle albe dense di ritorni profumati, sa quanto eroismo c’è stato nelle madri calabresi.»

Il pane – alimento al centro di bellissimi testi in poesia e in prosa della letteratura mondiale – trova pagine significative anche nella narrativa calabrese recente, per esempio in Cola Ierofani di Giuseppe Mario Tripodi, ambientato nei dintorni di Melito, e ne Il bacio del pane di Carmine Abate, che già nel titolo richiama il rapporto sacro delle generazioni che ci hanno preceduto con questo alimento.

Una sacralità cui il croato Predrag Matvejevic ha dedicato un testo fondamentale, Pane nostro. Da questo e da un altro suo bellissimo libro, Breviario mediterraneo, i ragazzi a leggeranno dei passi. Matvejevic, tra l’altro, aveva una grande passione per la Calabria: «La Calabria è una terra strana, in realtà è quasi un’isola, una passerella alta e stretta tra due mari, un bivio che prepara la strada verso il Mediterraneo profondo, il salto verso la Sicilia. È una terra di confine, uno di questi posti che viene sempre prima o appena dopo che ci si lascia tutto alle spalle. Ma il mare da voi è più vicino alla terra che in tutto il resto d’Italia, e quasi ti viene incontro da tutti i lati, è vicino a tutto, ha qualcosa di dilagante, inarginabile, è il Mediterraneo che illumina anche le montagne, che porta il sale delle onde fin dentro ai boschi, alla grandezza della Sila. Mi piace la Calabria.»

Tornando al pane nella letteratura calabrese, vorrei ricordare ancora almeno Corrado Alvaro che, anche nei sassi dei nostri torrenti, riusciva a vedere forme di pane e alcune memorabili scene di Noi lazzaroni di Saverio Strati dove il pane, preparato dalla madre, viene suddiviso con dolore e, anche, con sguardo torvo, calcolando quanto ognuno ne può mangiare da lì alla successiva infornata: troppo poco sia per il figlio che deve portarlo lontano al lavoro sia per chi resta a casa.

Naturalmente, la letteratura calabrese sia quella del Novecento che quella più recente, oltreché al pane, ha dato e continua a dare ampio spazio ai lavori dei campi (per esempio, Mimmo Gangemi ha dedicato pagine bellissime agli uliveti) e alle tradizioni della civiltà contadina che, per lungo tempo, hanno contrassegnato la nostra terra.

C’è molto, però, che non è stato ancora raccontato e che aspetta di trovare voce. Ed è bello che a scuola ci si appropri del nostro passato perché solo ciò che viene narrato può diventare memoria collettiva e rafforzare un senso di identità, che non è contrapposizione ad altri, ma linfa per guardare con rinnovata forza e maggiore spirito d’accoglienza al futuro.

Mi avvio a concludere con una piccola nota su Pellaro. Il suo nome si trova in testi della letteratura classica: secondo una glossa di Esichio, esso è in rapporto o in derivazione da pella, che significa pietra, con allusione alla pietra calcarea locale e del vicino promontorio di Leucopetra o Capo dell’armi. Ma si trova anche nella narrativa più recente. È pellarota la protagonista di un libro, non il suo migliore in verità, del grande Mario La Cava, Mimì Cafiero, (1959) che così la introduce: «Stava Lina Montevergine appoggiata al balcone della sua casa in Pellaro, tra i garofani che erano già in piena fioritura.» E Pellaro è più volte è citata in Noi credevamo (1967) di Anna Banti, uno dei romanzi più belli sul nostro Risorgimento, dove il protagonista dedica queste parole alla Calabria: «Se mi riconosco una patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida, dove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato. (…) Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e intatta nel passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al suo male: tanti ne ha visti, tanti ne vedrà senza batter ciglio, il privilegio dei disperati

E chiudo davvero con una poesia recente del più noto poeta vivente italiano, Franco Arminio:

Amo l’Italia
armena,
l’Italia antica,
amo la Calabria,
il paesaggio
non confezionato,
la faccia di chi cammina
nel secolo sbagliato.
Amo la Calabria
a Palmi un po’ algerina
finlandese sulla Sila.
Amo il mare che si getta
nel treno, i pesci
sull’asfalto, le case parcheggiate
anche negli occhi
dei gabbiani.
Non conosco una terra
più sensuale,
un disordine più esemplare,
una grazia più oltraggiata.
Questa non è una regione
è un altare.



Ringrazio le colleghe che hanno proposto, per la lettura dei loro allievi, insieme ai testi di Abate e di Matvejevic, un mio raccontino, intitolato Il pane bollito.

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