Se
c’è una domenica in cui ho la sicurezza di alzarmi stordita, è l’ultima di
ottobre.
Benché
mi alzi solitamente presto, non mi piace il ritorno all’ora solare, quel senso
di sera che prende già alle quattro del pomeriggio e il buio
pieno cala troppo presto.
Non
mi ci abituo e non ne capisco il senso
economico: ma tutte queste luci accese dal primo pomeriggio non finiscono
col costare più dell’ora eventualmente guadagnata al mattino (giusto dicembre e
gennaio, per il resto le albe non sono tanto più scure un’ora prima)?
Questo
l’ho scritto ieri per Zoomsud ed è intitolato Locri, Persefone e la notte dei Melograni http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/59058-locri-persefone-e-la-notte-dei-melograni.html
perché accompagnato dalla notizia della mostra d’arte organizzata, al Museo Archeologico
della cittadina jonica, da Marò Locri “Mitica,
il ritorno di Persefone” aperta a Locri.
Strana
notte, questa del passaggio tra l’ultimo sabato e l’ultima domenica di ottobre,
ovvero del ritorno all’ora legale grazie con quei doppi sessanta minuti, tra le
tre e le due del mattino.
Canterebbe
proprio questo sabato, l’immenso Leopardi, se per accidenti gli capitasse di
vivere ora, come il più lungo di promesse?
Non
lo so. Quello su cui ho pochi dubbi, invece, è che questi sono i giorni più
giusti per rallegrare la casa con un bel cesto di melograni e, magari, mettere
in tavola un piatto speciale (dal risotto alla crostata di melagrana, o, anche,
semplicemente, arricchire con i succosi chicchi color granato una normale
insalata).
E
andare a ritrovare i riferimenti letterari sul melograno e i suoi frutti. Dal
Cantico dei cantici, dove dell’amata si dice “Come un nastro di porpora le tue
labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua
gota attraverso il tuo velo” ad Argo e il cieco di Bufalino, “Fui giovane e
felice un’estate, nel cinquantuno. Nè prima né dopo: quell’estate. E forse fu
la grazia del luogo dove abitavo, un paese di figura di melagrana spaccata;
vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà
sparpagliato ai suoi piedi”. Senza dimenticare, naturalmente, l’albero “cui
tendevi la pargoletta mano” di Carducci e i versi del marocchino Hamid Misk,
“La felicità è come un chicco di melograno,/spesso così piccola da essere
invisibile,/all'occhio che non riesce a guardare lontano/al-di-là del canto,
delle stelle e del proprio cortile”, né le parole che Romeo rivolge a Giulietta
“all’ombra di un melograno”.
Fermarsi,
a lungo, a contemplare quella meraviglia della Madonna col melograno di
Botticelli.
E,
poi, andarsi a rileggere il mito di Demetra e Persefone. La notte con un’ora in
più di buio alla ricerca di un di più di luce, è quella giusta della dea delle
messi e della bella figlia che, nell’Ade, ha mangiato solo sei chicchi di
melograno: sì che l’inverno, verso cui pure andiamo, non sarà per sempre, ma
torneranno primavera ed estate.
Di
tutti i miti greci – e non è il caso di ripercorrerne qui le tracce, da Vibo a
Locri – non ce n'è nessuno così calabrese come quello di Persefone.
Sarà
per questo che, da quando ricordo, ben prima d’aver messo piede al classico, ho
sempre guardato ai melograni come frutti sacri. Anzi ‘e ranati. Perché il dialetto sa bene che si tratta si mele con i
grani.
Ps
Ai riferimenti presenti in questo pezzo, vorrei aggiungere almeno i versi della
Spaziani ( Luna d’inverno che dal
melograno/per i vetri di casa filtri lenta/sui miei sonni veloci) e l’ode
di Lorca (E’ la melagrana profumata/un
cielo cristallizzato./Ogni grana è una stella./Ogni velo è un tramonto).
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