domenica 27 ottobre 2013

Quanto è brutta l'ora solare (ma è davvero utile?)






Se c’è una domenica in cui ho la sicurezza di alzarmi stordita, è l’ultima di ottobre.

Benché mi alzi solitamente presto, non mi piace il ritorno all’ora solare, quel senso di sera che prende già alle quattro del pomeriggio e il buio pieno cala troppo presto. 

Non mi ci abituo e non ne capisco il senso economico: ma tutte queste luci accese dal primo pomeriggio non finiscono col costare più dell’ora eventualmente guadagnata al mattino (giusto dicembre e gennaio, per il resto le albe non sono tanto più scure un’ora prima)?


Questo l’ho scritto ieri per Zoomsud ed è intitolato Locri, Persefone e la notte dei Melograni http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/59058-locri-persefone-e-la-notte-dei-melograni.html perché accompagnato dalla notizia della mostra d’arte organizzata, al Museo Archeologico della cittadina jonica,  da Marò Locri “Mitica, il ritorno di Persefone” aperta a Locri.




Strana notte, questa del passaggio tra l’ultimo sabato e l’ultima domenica di ottobre, ovvero del ritorno all’ora legale grazie con quei doppi sessanta minuti, tra le tre e le due del mattino.

Canterebbe proprio questo sabato, l’immenso Leopardi, se per accidenti gli capitasse di vivere ora, come il più lungo di promesse?

Non lo so. Quello su cui ho pochi dubbi, invece, è che questi sono i giorni più giusti per rallegrare la casa con un bel cesto di melograni e, magari, mettere in tavola un piatto speciale (dal risotto alla crostata di melagrana, o, anche, semplicemente, arricchire con i succosi chicchi color granato una normale insalata).

E andare a ritrovare i riferimenti letterari sul melograno e i suoi frutti. Dal Cantico dei cantici, dove dell’amata si dice “Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo” ad Argo e il cieco di Bufalino, “Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Nè prima né dopo: quell’estate. E forse fu la grazia del luogo dove abitavo, un paese di figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi”. Senza dimenticare, naturalmente, l’albero “cui tendevi la pargoletta mano” di Carducci e i versi del marocchino Hamid Misk, “La felicità è come un chicco di melograno,/spesso così piccola da essere invisibile,/all'occhio che non riesce a guardare lontano/al-di-là del canto, delle stelle e del proprio cortile”, né le parole che Romeo rivolge a Giulietta “all’ombra di un melograno”.

Fermarsi, a lungo, a contemplare quella meraviglia della Madonna col melograno di Botticelli.


E, poi, andarsi a rileggere il mito di Demetra e Persefone. La notte con un’ora in più di buio alla ricerca di un di più di luce, è quella giusta della dea delle messi e della bella figlia che, nell’Ade, ha mangiato solo sei chicchi di melograno: sì che l’inverno, verso cui pure andiamo, non sarà per sempre, ma torneranno primavera ed estate.

Di tutti i miti greci – e non è il caso di ripercorrerne qui le tracce, da Vibo a Locri – non ce n'è nessuno così calabrese come quello di Persefone.

Sarà per questo che, da quando ricordo, ben prima d’aver messo piede al classico, ho sempre guardato ai melograni come frutti sacri. Anzi ‘e ranati. Perché il dialetto sa bene che si tratta si mele con i grani.

Ps Ai riferimenti presenti in questo pezzo, vorrei aggiungere almeno i versi della Spaziani ( Luna d’inverno che dal melograno/per i vetri di casa filtri lenta/sui miei sonni veloci) e l’ode di Lorca (E’ la melagrana profumata/un cielo cristallizzato./Ogni grana è una stella./Ogni velo è un tramonto).

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