«A capo della ricerca c’è
Giovanna Mallucci dell’Università di Leicester: “È stato sorprendente. I topi
trattati erano completamente protetti. E, cosa più importante, i loro cervelli
erano completamente protetti”. Gli effetti collaterali di questo trattamento
sono ancora pesanti, e per adoperarlo sull’uomo bisognerà aspettare almeno un
decennio. Ma le parole di Morris danno speranza: “È la prima prova convincente
di come una sostanza, del genere che più facilmente diventa una medicina, possa
impedire la progressiva moria dei neuroni nel cervello. Come accade, ad
esempio, per il morbo di Alzheimer. È vero, lo studio è stato condotto sui
topi, non sull’uomo; e non è la stessa malattia ad esser stata curata. Ma ci
sono prove considerevoli che il modo in cui i neuroni muoiono nei due casi è
simile”».
Leggo questa notizia sull’Huffington
Post ( http://www.huffingtonpost.it/2013/10/11/alzheimer-medicinali-cura_n_4084374.html?utm_hp_ref=italy
) poco dopo aver finito il libro di Arno Geiger Il vecchio re nel suo esilio, edito da Bompiani storia del rapporto tra l’autore e il
padre, entrato nella spirale dell’Alzheimer e poco prima di vedere, su Rai Tre,
il film di Pupi Avati, Una sconfinata
giovinezza, con Fabrizio Bentivoglio e Francesca Neri (nella foto), storia vera di un
amore coniugale sottoposto alla “prova Alzheimer”.
Faccio un tifo sconfinato per la dottoressa Mallucci e
per tutti i ricercatori che provano a trovare il farmaco che blocchi l’Alzheimer.
Il film di Pupi Avati suggerisce bene
il dramma di chi attraversa, da malato o da persona accanto al malato, un tale
dramma. Il libro di Arno Geiger dice, con delicatezza di toni, alcune verità. Ma chi
ci è o ci è stato dentro conosce un dolore che va al là delle più riuscite
rappresentazioni: sconfinato.
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