Mentre la costa tirrenica, nel pieno sole di luglio, scorreva a lato del treno che la riportava nella casa d’infanzia, Giulia avrebbe voluto la mente vuota o solo fugacemente attraversata da vaghi pensieri leggeri - invece:
Quella mattina, di luce autunnale ancora incerta, quando aveva portato in classe alcuni libri con protagonisti bambini – sapeva che, leggendo a voce alta, trasmetteva vibrazioni – per quasi un’ora s’era dimenticata di sé e anche i ragazzi erano rimasti in silenzio, gli occhi fissi in un punto lontano.
Avevano poi parlato dei ricordi – Francesco aveva sibilato: “Era bello quando ero piccolo, non sapevo niente, ero contento” – e aveva dettato tre tracce sulle loro esperienze infantili. Mentre scrivevano – solo Antimo era rimasto con la testa poggiata sul banco: “Ho sonno, voglio dormire” e Ciro scarabocchiava disegni semi-osceni – anche lei aveva iniziato a prendere appunti: Non soffia più il vento./Non mi spinge avanti l’onda leggera/di primaverili profumi. Remi /veloci cerco per fendere il mare/immobile. L’orizzonte è lontano. Poi Ciro s’era alzato per affacciarsi alla finestra e lei gli aveva ordinato di tornare al suo posto, nella voce nessuna dolcezza e nessuna rabbia. Lentissimamente, lui s’era avvicinato al suo banco e, poi, sedendosi, aveva piegato la testa da un lato, alzando le sopracciglia e fissandola a lungo con un lampo di triste arroganza nello sguardo.
Sapeva bene, Giulia, che, se avesse potuto scegliere non avrebbe mai fatto l’insegnante. Prima di tutto, perché non le piacevano i ragazzini. Poi, perché la scuola l’annoiava. Da studentessa, era sempre stata la prima della classe, ma aveva il sospetto che fosse successo perché, avendo una vita molto limitata e non potendo primeggiare in nient’altro, aveva trovato nello studio un nascondimento alle sue ossessioni. In più, senza mai dirselo, era convinta che solo chi ha una felice percezione di sé può trasmettere qualcosa agli altri, e lei non si amava.
Quell’anno, poi, aveva avuto una classe di ragazzini ignoranti e strafottenti, facce fissate in una maschera di sfottò che la snervava. Aveva paura delle loro reazioni e temeva di non essere in grado di reggerli. Li vedeva annoiarsi e si annoiava più di loro. Entrava in classe carica di fotocopie, di ritagli di giornali, di poesie. Si adattava a parlare di quello che vedevano in televisione. S’era addirittura abituata ad utilizzare tutta la dotazione informatica che la scuola aveva a disposizione. Quando era lontana da loro, si attrezzava ad una lezione interessante, ma varcata la soglia dell’aula la prendeva un senso d’annoiata impotenza. Accentuata dal fatto che s’era consumata un’illusione d’amore che, negli ultimi mesi del precedente anno scolastico, le aveva dato slancio. Gianpaolo era entrato nella sua vita per caso e non se n’era neanche accorto. Professore universitario, arguto e ironico, aveva tenuto alcuni moduli di aggiornamento per docenti nella sua scuola. A lei era tornato in viso un po’ di quel po’ di colore che s’era portato via il marito, quando l’aveva lasciata per Claudia. Passava continuamente in rassegna ogni momento in cui l’aveva visto e sentito; prendeva parole e immagini e li ripiegava, li metteva nei cassetti, poi li ritirava fuori. Aveva riorganizzato la sua mente intorno a lui e ai battiti adolescenziali del cuore. Le era sgorgata dentro una certa voglia di fare e tutto o quasi le era diventato più semplice con i suoi allievi e nel resto. Quando s’era accorta che tutto avveniva solo nella sua mente, il sentimento era svanito e con esso quell’abbozzo, se non di felicità, di leggerezza per quella confidenza con la vita che mai prima aveva provato. E tutto s’era, di nuovo, appesantito. Le pareti dell’aula, che in certi giorni le erano sembrate trasparenti, erano tornate muri sporchi e tristi. Insegnare ha qualcosa a che fare con l’amore, s’era detta, e lei, non avendo in sé neppure tracce disperse, nulla poteva dare.
L’arrivo nella stazione di Lamezia, svuotando i sedili vicino al suo, la distolse dall’acquitrino malsano dei suoi pensieri. Che si spostarono, a poco a poco – impercettibilmente – sul mare. Si stupì che, soprattutto dopo ogni galleria, apparisse diverso. Uguale, sì; ma diverso. Come se declinasse in una molteplicità di accenti la sua unica voce. Ora, l’azzurro cedeva al blu e, nel cielo, più chiaro del mare appena tremolante, apparivano sottili striature rosa. Non le parve bello continuare a vedersi come un limone, molle d’eccesso di inutile maturazione, che, appena toccato, si liquefa in lacrime acide. La bolla di solitudini e rimpianti, che galleggiava all’imboccatura dello stomaco, si frantumò in schegge ruvide come lembi di pelle scartavetrata che, deponendosi lenti ai suoi piedi, diventavano pallidi, impalpabili, petali.
Si chiese se da quasi due mesi di albe e tramonti di Calabria – con le granite di limone nel cortile dei meli cotogni e le brioche al cioccolato sul lungomare – sarebbe ripartita col sorriso lieve di chi, dalla sconfitta, non si fa vincere.
Pubblicato su Zoomsud con il titolo Racconti d'estate: Vacanze da scuola http://www.zoomsud.it/commenti/35710-racconti-destate-vacanze-da-scuola.html
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