Il giorno del battesimo la sorprese, improvviso. Aveva avuto tutto il tempo per prepararsi. Era uscita un mese prima con la madre a comprare un vestitino di lino blu con la passamaneria di pizzo bianco e uno scollo rettangolare che le donava molto e un giacchino anch’esso blu di svelta eleganza per la cerimonia e, come regalo, una catenina d’oro di buon peso, con una croce stilizzata. Era stata pure, la sera prima, dalla parrucchiera, che le aveva sfoltito i lunghi capelli castani, dandole un’aria più fresca e quasi sbarazzina. Ma non era pronta. Provava a lasciar passare le ore occupandosi di tante piccole cose che le svuotassero la mente, ma sentiva salirle dalle viscere un’ansia cupa e uno spavento da scappare lontano, ad occhi chiusi.
Paola e Giusy s’erano offerte di accompagnarla in chiesa. La silenziosa penombra in cui entrarono si faceva confusione e rumore ai primi banchi, dove si stavano radunando gli invitati, le donne con grandi ventagli a rinfrescare scollature generose oltre il caldo torrido di luglio, gli uomini con giacche sbottonate.
Pallida e con lo sguardo perso di chi sta per perdere il controllo sul pensiero e sul respiro, Letizia si chiese che cosa ci facesse lì, tra tutti quei fiori, il coro che cominciava a provare i canti e la Madonna sull’altare, dal manto rossiccio sulla veste blu, che le si confondeva in strane macchie vorticanti. Ma sorrise quando arrivarono Piero e Anna con tra braccia Francesco, che, in un candido completino da marinaretto, si guardava intorno con tranquilla curiosità.
Che Letizia dovesse essere la madrina di Francesco – per padrino era stato scelto l’unico zio maschio – nessuno ne dubitava. Compresa lei. Piero e Anna erano stati i migliori amici del suo fidanzato e al primogenito avevano dato il suo nome.
Lei e Francesco si sarebbero dovuti sposare, due mesi e tre giorni dopo l’incidente in cui lui era morto e questa nuova vita che portava il suo nome non poteva farle che bene. Si sarebbe commossa di quella malinconia che, dopo le lacrime, dà allo sguardo una rinnovata serenità. Così pensavano tutti. Anche lei. Ma, durante tutto il rito, dietro il pallido sorriso cui aveva costretto il volto, la sommossero onde di maremoto nuovo. Una rabbia schiumante che avrebbe sommerso tutto e tutti in quella chiesa. Un’invidia dei vivi, che sembravano così contenti di starci nel mondo e, ancora più, un’invidia dei morti, che né il sole né la pioggia poteva più toccare: lei che non era né viva né morta. E, più ancora, una livida insofferenza non della felicità di Piero e Anna, ma del loro affetto, della loro vicinanza: come sarebbe stato più facile se la loro scortesia, l’indifferenza, una parola o un gesto sbagliato le consentisse di andare via. Più volte ne provò la sensazione, ma non svenne.
Alla cena, in un ristorante sul mare – il brecciolino crocchiava sotto i piedi nel cortile circondato da una staccionata fatta di canne e c’era, lontano, l’odore dolciastro di qualche residua siepe d’erba fetera –Letizia non toccò quasi cibo e non disse che qualche monosillabo, ma mantenne il suo pallido sorriso. Tornò a casa tardi. La madre, che l’aspettava con la credibile scusa di un’insonnia da caldo, le avrebbe volentieri dato parola. Lei disse che aveva sonno e si ritirò in camera. Il piccolo specchio sul comodino le restituì un volto stanco, la pelle tirata, gli occhi piccoli e arrossati, i capelli intristiti. Accese il computer e fece scorrere un centinaio di foto. Poi tirò fuori dal comodino un’agenda su cui aveva annotato gli sms più affettuosi o divertenti e cominciò a leggere, anche se la vista le si appannava di lacrime.
Per quasi tre anni, s’era portata in giro un peso che nessuno conosceva, avendolo lei stessa fin da subito nascosto a se stessa. Quella sera, tornando da una passeggiata verso Capo d’Armi – la luna piena si rifletteva nell’acqua immobile come lo strascico di seta d’una sposa danzante – avevano litigato. Lei aveva detto che c’era tanto tempo per pensare a un figlio. Lui che di figli ne voleva almeno tre.
S’erano lasciati, davanti a casa di lei, imbronciati e nervosi. Letizia s’era andata a fare una doccia rilassante in una schiuma setosa. Lui era andato a sbattere contro una moto che gli aveva tagliato la strada ad uno degli svincoli della statale jonica.
Nelle tempie, in gola, nello stomaco, nell’incavo delle braccia e dove le gambe diventano piedi, le rimbombava qualcosa per cui non trovava parole: un senso di definitività di ciò che era stato. Che fosse anche o solo colpa sua, lui non sarebbe tornato: mai più.
Il piccolo Francesco non portava il suo nome. Aveva un altro nome. Col tempo, avrebbe imparato a pronunciarlo come un nome normale.
Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/36238-racconti-destate-un-nome-qualsiasi.html col titolo Racconti d'estate: Passeggiata a Capo d'Armi.
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