sabato 23 giugno 2012

Quando il giovane Gregorio portò a Reggio il mandorlo


Dicono che, a quel tempo, le imbarcazioni potevano navigare sicure solo nel periodo primavera-estate.
Nulla, quindi, esclude che sia accaduto l’equivalente di oggi, giovedì 21 giugno.
Che anno fosse per loro, non lo so. Per noi, era il 730 a.C.: circa.

Perché bisognasse lasciare l’Eubea e mettersi per il largo mare aperto ce l’hanno raccontato fior di poeti e scrittori e, comunque, non sarebbe difficile immaginare i chiari-oscuri sentimenti che spingevano i vari Demetrio e Andrea a mettersi su una nave panciuta e cercare altre terre.

Quella volta, poi, l’oracolo di Delfi era stato chiaro: «Là nel punto in cui l’Apsias, il più sacro dei fiumi, si getta in mare,/ dove troverai una femmina avvinghiata ad un maschio,/ il dio ti concede la terra ausonia»

E così, avendo intravisto alla foce dell’attuale fiumara del Calopinace, una vite avvinghiata ad un fico selvatico, si fermarono, fondando, a Reggio, la prima πόλις (polis) greca in Calabria.

Ci stanno, però, particolari che a storici, geografi e scrittori sono sfuggiti. Non ne ho nessuna prova, e, insieme, nessun dubbio.

Una di quelle barche si fermò poco più a sud, più o meno nell’attuale Occhio, in una di quelle conche di mare con la sabbia sottile e dorata, le colline dolcemente degradanti fino al bagnasciuga, davanti lo stupefacente spettacolo del profilo siciliano, e l’acqua profumata e trasparente, in cui non disdegnavano di bagnarsi le ninfe più belle e le più giovani dee.

Sceso dalla nave, il giovane Gregorio respirò a pieni polmoni e tutto, nel suo cuore, diventò calmo e trasparente come il mare: era arrivato al luogo del suo destino.

Costruì casa, ebbe moglie e figli e coltivò un pezzo di terra. In un vaso di ceramica s’era portato semi, che piantò e crebbero. Le sue noci greche piacquero a molti e, con i matrimoni dei molti figli e nipoti, si diffusero in tutta la zona, finché qualcuno cominciò a dare a quegli alberi un nome nuovo.


In altre zone della Calabria, si dovesse scegliere un albero sacro non potrebbe che essere l’ulivo (che bello il mito del nome della capitale greca: la dea della sapienza batte il dio del mare e il dio della bellezza facendo dono alla città dell’albero d’olivo).

Ma nel reggino, nonostante sia (stata) per buona parte del Novecento centro del bergamotto, non avrei dubbi.

Il mandorlo è (stato) la fatica di chi ha dissodato seccagni, lo stupore delle primavere annunciate in pieno inverno, la durezza della raccolta col sole cocente e gli sterpi intorno a graffiare le carni e la nuova fatica della doppia sbucciatura (del mallo verde/marrone e poi del guscio legnoso, dopo la schiacciatura), e la dolcezza d’invenzioni culinarie, che vanno dalle ‘mmenduli ‘nturrati ai petrali.

D’estate, poi, nei giorni di festa e se si aspettavano ospiti, c’era un rito degno della candida Diana.
Per il latte di mandorle bisognava macinare le mandorle finissime, metterle in un tovagliolo di candido lino, chiuderle strette, immergerle in un recipiente, strizzarle fortemente in un altro recipiente e ripetere questa operazione decine e decine di volte, fino a ridurre a un pugnetto la “palla” iniziale di mandorle macinate (pugnetto, che noi bambini mangiavamo). Ne veniva un liquido di bianchezza assoluta sprigionante un profumo di petali rosati che dava la stessa piacevole sensazione di un venticello fresco e leggero che s’alza in ore torride.
Portato a giusta bollitura con lo zucchero, quel liquido diventava orzata: un cucchiaio di sciroppo in un bicchiere d’acqua per fare colazione al mattino (con dentro il pane duro, le brioche erano cose da pasticcerie dei ricchi) o riprendere fiato il pomeriggio.

Per quanto buona, però, nessuna orzata poteva competere col latte di mandorla fresco. Un sapore aurorale: da alba dell’umanità.

Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/commenti/35244-il-latte-di-mandorla-come-rendere-fresca-lestate-piu-torrida.html con il titolo Il latte di mandorla. Come imparammo a renfrescare l'estate
 

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