“Vivere nel brutto senza accorgersi che è brutto, è possibile”. Certo, non per Mauro Francesco Minervino, scrittore, notista, professore di Antropologia Culturale ed Etnologia, una buona parte della giornata vissuta in macchina, negli spostamenti tra Paola, dove vive, e Catanzaro, dove insegna. Ad allenare il suo sguardo “…sono i 120 chilometri all’andata, al mattino presto, i 120 al ritorno della sera”, passati sulla statale 18, “ancora oggi la più importante arteria di collegamento tra la Campania e la Calabria”, “la strada che ha visto trasformarsi il paesaggio e la vita della Calabria tirrenica in quella frangia continua e disordinata di cemento e asfalto che oggi vede lo scempio macrofisico e microfisico del fai da te della speculazione immobiliare e dell’abusivismo saldamente in mano a mafie e privati”: “In mezzo alla statale 18, insomma, corre un mondo e una vita che fermenta come il mosto di una cattiva vendemmia. Qui c’è tutto quello che sta a sud di Gomorra”.
Con le 500 mila persone circa che l’attraversano, il “nastro d’asfalto” della statale 18 “è anche l’unica vera grande città della Calabria moderna”, un paesaggio di cemento informe, cantieri sempre aperti, suolo occupato sgangheratamente da case irrimediabilmente brutte, apoteosi di uno sviluppo senza qualità, dovunque abusivismo e scempio, la frantumazione d’una cultura di comunità frugale e misurata, la distruzione della campagna, l’avvelenamento del mare: un supplizio per gli occhi e la mente che ricordano ben altri presepi.
“Davanti a questo inarrestabile disastro, all’aggressione alla salute, alla dignità della gente, alla bellezza dei paesaggi e del mare guastati dalla squallida edilizia della ‘città stradale’ che si stende come un funebre lenzuolo di cemento sulla SS18, a volte vorrei davvero invocare la mano di Dio. Una maledizione terribile, un salmo da Qolet, uno tsunami gentile che dal mare si abbatta sullo sporco che orla la terra per scioglierlo come un enorme twist di lavatrice. Un terremoto selettivo che inghiotta tutto il marcio di adesso e lasci in piedi solo povere cose, solo quello che c’era prima”.
Dice Minervino: “La Calabria che amo per me dovrebbe essere ancora così, dovrebbe essere questa: sole, vento e roccia, acque calme e scompigli di tempeste, vulcani impressionanti, cime verdissime, panorami sbalzati da un incantesimo ultraterreno. E oltre ogni cosa confinata in terra, un mare potente e ammaliante che si estende a perdita d’occhio. Natura intoccabile che basta a se stessa. Niente strade. Niente che faccia posto agli usurpanti, niente cemento, niente abitanti, niente turisti. Un eden estremo, indomito e brutale. Un eden tutto per me”.
Se questo è il sogno del cuore per sé, la risposta di carattere sociale Minervino la indica nell’abbandono dell’‘ideologia del progresso’ a favore dell’‘ideologia dei limiti’, della sostenibilità ambientale, ovvero nel “coniugare estetica e politica per riportare la bellezza nei nostri interessi e nel nostro ambiente, per restituire efficacia e consapevolezza al nostro abitare i luoghi. La storia della bellezza in Calabria ci dimostra che essa è efficace anche nella sfera dell’utile. (…) Il centro del costruire, del fare anima sui luoghi, è un interesse umano generale, che si afferma solo quando l’architettura si pone come risposta al dimorare dell’uomo in armonia con la natura”.
E non si può tornare al bello se non accettando, come si osservava all’inizio, di guardare a fondo il brutto: “una forma di carità, di passione attiva e partecipe che vuole redimere la vita così com’è, non come ci piacerebbe fosse”.
Statale 18, edito da Fandango, è un lungo racconto-diario-saggio- che torna e ritorna, insistentemente, sullo stesso tema: l’ambiente calabrese, il suo terribile degrado, il permanere, nonostante tutto, di squarci di stupefacente bellezza, la sfiducia che qualcosa possa davvero cambiare e l’impossibilità di adeguarsi a tale disperazione. Un urlo, una poesia, un atto appassionato di geloso e furente amore per la terra di Calabria.
Non si parla, se non marginalmente, di persone, in questo libro, ma solo di terra, mare, campagne, case e, soprattutto, di una strada. Con la sottesa convinzione che, per ottenere sviluppo economico e umane condizioni di vita, per ritrovare le ragioni di una solidale comunità, “basterebbe in fondo amare i luoghi, voler bene davvero alla terra, la propria”.
Pubblicato su Zoomsud:
http://www.zoomsud.it/index.php?option=com_content&view=article&id=26220:la-recensione-banditi-e-briganti-di-e-ciconte&catid=74:commenti&Itemid=75
Nessun commento:
Posta un commento