“No, il forno no”. Voleva essere un’intimazione scherzosa, ma io mi irrigidii al mezzo urlo di mio padre. Avevo quindici anni ed una certa facilità ad avvertire rimproveri anche dove non ce n’erano. Mia madre non sapeva se dare prima della cretina a me o dello stupido a mio padre. Che si giustificò: “Ma come, lo dicono alla pubblicità”. (Era una reclame, se ricordo bene, di un qualche prodotto per pulire le incrostazioni dei forni). Anche se il cuore stava ancora accelerato, Mariella si risolse a sorridere e ad aprire il forno. Dentro, per sottrarli ad eventuali formiche, c’erano allineati i dodici piattini di ceramica del servizio da caffè da bambole che era stato il suo ultimo regalo della Befana: in nulla diverso da un servizio normale, se non fosse per il decoro infantile, con un bambinetto con cappellino a barca in testa che tirava su dal mare un pesce con una lenza. Finito il suo, il padre disse: “Prendimelo, un altro piattino”. Disporre la pignolata in piccole dosi, era il tentativo di non farla finire subito: ma una pallina, tirava l’altra.
Dalle mie parti, Carnevale non aveva una gran fama. Nu carnuluvari paratu ‘a dritta: bastava dire così per significare la stupidità grande di qualcuno. In verità, i vecchi qualche volta si lasciavano scappare quanto s’erano divertiti, in gioventù, certi carnevali, con certi scherzi, mentre le donne anziane sviavano ricordi che richiamavano in loro parole e gesti dei mariti entrambi volgari: di quelli che, frutto dell’ubriachezza e/o della momentanea follia, era meglio nascondere e, possibilmente, dimenticare.
Ma, nelle stesse domeniche in cui l’odore della salsa di carne di maiale tirata per ore per condire i maccheroni impregnava i valloni, ogni brava padrona di casa friggeva migliaia di palline di pignolata. (Nelle pasticcerie, con lo stesso nome, si vendevano spaselle di pallottole glassate di zucchero e di cioccolato: composizioni in bianco e nero, bellissime da vedere, per me troppo dolci e azzeccose da mangiare). Oppure, con un impasto simile ma più “duro”, tirava la sfoglia e la tagliava in strisce sottili da friggere rapidamente. Non potrei dire che il termine napoletano “chiacchiere” non sia adeguato alla conversazione che, una dopo l’altra, possono favorire. Ma non riesce a esprimere il mondo che sta nel reggino: crispedde ‘a ‘ventu. Dove i momenti supremi di gioia delle vigilie di Natale e Capodanno – esaltati dalle crespelle fumanti – si fa vento: soffio, respiro, delicata incorporeità dell’aria.
Non mi stupirei che sia stata qualche servetta reggina, finita in casa di qualche barone napoletano, a portarvi la pignolata, poi rielaborata ed arricchita, talvolta in architetture quasi barocche, nei natalizi struffoli. E, naturalmente, anche le chiacchiere. Fermo restando, che le crispedde ‘a vento portano, anche nel nome, ben altro profumo.
Contrariamente a quanto molti ritengono, sono convinta che la fase Regno delle Due Sicilie non abbia avuto effetti positivi sulla Calabria. La capitale ha avuto il (poco) meglio borbonico, facendolo pagare (anche) alla mia terra. E’ un aspetto marginale e su cui non ho prove, ma non mi stupirei che anche famose ricette napoletane, come gli struffoli e le chiacchiere, non siano nate a Napoli, ma in luoghi più poveri e più a Sud, da cui poi sono state riprese e arricchite.
E’ l’argomento di mio un racconto pubblicato da Zoomsud, col titolo Le crispelle ‘a vento. E il vento dei ricordi e del mare lontano
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