domenica 22 gennaio 2012

La caserma della buganvillea, tre storie per il maresciallo Martina Neri

Natale con delitto



Una sciarpa di garza leggera lasciata scivolare dal capo alle spalle – il pomeriggio era tiepido e terso – il maresciallo Martina Neri percorreva il bagnasciuga a passi regolari, lasciandosi avvolgere nell’abbraccio quieto dell’ampia solitudine del mare invernale. Sulla spiaggia non c’era che un vecchio;  stava avvolgendo il filo della lenza, dopo aver fatto scivolare un'opa in un secchio di plastica blu. Nell’aria, sembrava materializzarsi quel senso di sospensione che per secoli (prima dell’oppio consumista degli ultimi decenni) doveva aver costituito la magia della festa: la percezione di un mistero, l’abbandono alla sapienza della vita. Nelle cucine, nei salotti, nei tinelli, il resto del paese ancora banchettava.

Il suo era stato un pranzo sobrio – una lasagna leggera, preceduta da julienne di verdura e seguita da un petrale bagnato in un rosso corposo – consumato ad un tavolo su cui, con un certo garbo, erano addossati un piccolo presepe con le statuine di terracotta colorata, un alberello minuscolo, un vaso di stelle bianche e rosse, una boccia trasparente colma di melograni, due vassoi di frutta, fresca e secca e, al centro, ‘a ‘cuddura di pane ricoperta da granelli di sesamo.

Con due piccole bugie – alla madre, che viveva a metà strada tra lei e il fratello: andasse da lui e dalle nipotine, tanto lei era di servizio; al brigadiere Ciccio Putortì: non poteva accettare l’invito suo e della gentile consorte, perché ospite di un’amica di famiglia, in un paese vicino – il maresciallo aveva pensato di garantirsi un Natale solitario.

Aveva passato la sera della Vigilia in vestaglia, riordinando appunti e pensieri, come per un’esigenza di leggerezza e pulizia del cuore. Il bilancio del suo primo anno nella caserma della grande buganvillea poteva essere considerato positivo. Non solo erano riusciti ad arrestare un capetto ‘ndranghetista da anni latitante, ma stavano a un passo dal chiudere il cerchio su due insospettabili della “zona grigia”, su cui avevano accumulato faldoni di prove. Ma cominciava ad avvertire una stanchezza dell’anima, cui doveva per qualche ora abbandonarsi per non esserne del tutto sopraffatta, come quando lo slancio d’adrenalina, privo di nuova carica,  si sfalda in polvere di tristezza. Aveva dormito appena qualche ora, agitata dal non aver dovuto mettere la sveglia. A metà della mattinata, un pensiero l’aveva attraversata lasciandole una scia di vago turbamento. Diciassette anni prima, qualcuno l’aveva chiesta in moglie. Un ragazzo gentile, di cui non ricordava né il nome né il volto. Gli aveva detto un “no”, chiaro e contorto. Ingenua e inesperta, aveva provato a trovare scuse che non la scoprissero né lo umiliassero.  La verità era che aveva in mente uno che neppure le badava. Due anni dopo, un pranzo di Natale – cui erano presenti anche nonni e  zii e non era mancata nessuna delle dodici portate della tradizione – avrebbe dovuto preludere al matrimonio con quell’uno, che aveva poi scelto una ragazza di minor peso e di maggiori beni. Poi, nessuno s’era accorto di lei e lei nessuno aveva cercato.

Una nave container, scorrendo lungo la linea dell’orizzonte, agitò le onde. Uno spruzzo d’acqua la raggiunse alle gambe, restituendola al presente. Il vecchio se n’era andato. Martina Neri era rimasta sola, unica spettatrice d’un tramonto sfolgorante. Sprofondò nei rossi e nei gialli striati di grigi e di fucsia e cercò di rimanere immobile dentro tanta bellezza. A scuoterla fu la suoneria del cellulare. Il brigadiere, urgentemente cercato da un appuntato, aveva visto la sua utilitaria ferma davanti casa e aveva concluso che il maresciallo, fosse o meno andata via in mattinata, ora stava lì. Il tono voleva essere gentile e, ancor più, di richiesta e preghiera, ma risultò imperativo.

Il maresciallo  non si concesse il tempo di un ultimo sguardo al mare e rapidamente s’avviò verso la caserma, incontrando presto la macchina dei carabinieri che le era stata inviata incontro. Ciccio Putortì – che aveva sperato in una serata tranquilla per digerire i cannelloni al ragù, l’agnello con le patate, la salsiccia e il pandoro alla crema di mascarpone, una specialità della moglie, e le cassatine di ricotta ricoperte di glassa, che sua madre aveva appreso da una zia siciliana – le riferì il poco che aveva raccolto. Il morto era una donna di settanta anni, madre di cinque figli, vedova – dato, quest’ultimo, di nessun significato visto che la pressoché totalità delle donne in età lo era; spesso al maresciallo veniva in mente che quello era un paese di sole donne/donne  sole: vedove e badanti. Viveva nello stesso palazzo in cui abitavano due figlie  e un figlio; gli altri due stavano a Milano e si vedevano  in paese per due settimane ad agosto, uno con moglie e figli, l’altro sempre solo, perché la moglie trovava luogo e parentela poco adeguati ai suoi gusti. La defunta signora Assunta  aveva pranzato con il figlio, la nuora, i genitori e una sorella della nuora, mentre le due figlie stavano dalle rispettive suocere. Pareva che con entrambe ci fossero degli screzi non solo per la divisione di piccole proprietà che appartenevano o di cui era usufruttuaria la madre, ma anche perché le due donne le rimproveravano di passare la sua pensione, sotto forma di regali ai due nipoti, a Giuseppe: il primo maschio, il prediletto. Assunta, scesa nel suo appartamento per serrare le persiane lasciate socchiuse, non era più risalita. L’avevano trovata riversa sul pavimento della camera da letto. Il medico, chiamato a certificare un infarto o altra causa che potesse spiegare sì improvvisa dipartita, aveva invece scritto e firmato: sospetto strangolamento.

La casa, tre piani oltre l’appartamento a livello di strada della morta, stava a metà di un torrente, che sboccava nel più grande sottopasso del paese. Benché il portone fosse aperto, per le scale stagnava un olezzo di cibi dolci e salati che, singolarmente paradisiaci, diventavano una mescolanza nauseabonda. La nuora della morta sovrintendeva alla frettolosa rigovernatura della cucina, cui si stavano affaticando una sorella e due vicine. Il figlio, più che affranto dall’improvviso evento, sembrava snervato e offeso dall’ipotesi che non si trattasse di morte naturale e lo ripeteva, a voce più alta, ad ogni sopraggiunto parente. Delle due sorelle, era arrivata solo Graziella, che, lo sguardo attonito, s’era piegata sulla madre senza sfiorarla e s’era poi deposta su una poltrona al suo lato, alternando momenti di inebetito silenzio a raffiche di parole veloci e sconnesse. Paola entrò come una diva su un palcoscenico di provincia. Gettò sulla sedia un cappotto di visone – che ci voleva coraggio a tenersi addosso a quella temperatura – scoprendo, sul tubino aderente, una serie di collane. Martina Neri non si intendeva di gioielli, ma non ebbe dubbi che i monili al collo, e quelli alle orecchie e alle braccia, rappresentassero un valore economico, se non estetico, di grosso pregio.
Il maresciallo – che s’era immaginata una messa serale in un paese vicino seguita da ore tiepide di vestaglia, appunti e pensieri – porse al brigadiere la lista con la sequenza dei primi interrogatori. Avrebbe passato quel che restava del Natale a cercare l’autore di un delitto, anzi del primo delitto natalizio della sua carriera. Non fosse di nuovo in servizio, sarebbe scoppiata a ridere. In fondo, neppure questa volta le era riuscito di dire una bugia alla madre.


Le ricamatrici



Che Lillina e Marianna non fossero ricche, in paese lo sapevano tutti. Le due sorelle, rimaste orfane quando avevano l’una ventanni e l’altra ventidue – nel mezzo c’era un fratello che sarebbe morto trentanni dopo – non s’erano mai sposate. Avevano lavorato di cucito e ricamo e, ormai anziane, a consentirgli una vita decorosa non erano tanto le aggiunte alla parca pensione dei piccoli aggiusti d’orli e di pieghe, quanto l’abitudine a farsi bastare un poco molto vicino al niente. Sottili da sempre, s’erano fatte minute e quasi trasparenti, simili nello sguardo incerto e nei movimenti insicuri a uccellini implumi. Quando, tornate dall’abituale messa pomeridiana del primo venerdì, avevano trovato la casa sottosopra, s’erano sentite violate nella loro intimità pudica e dignitosa – le lenzuola di corredo gettate a terra, da candeggiare decine di volte prima di poterle di nuovo riporre nell’armadio – ma non avevano temuto grandi perdite. In casa, nulla c’era di valore da poter rubare.

Martina Neri era da pochi mesi alla guida della piccola caserma dei carabinieri, che stava in fondo al paese, tra due alti pini marini per metà ricoperti da una buganvillea che faceva da arco sul portone, legando i due in un solo albero. Quarantenne, un corpo agile nonostante i novanta chili e più, i grandi occhi marroni esaltati da un finto biondo, unica civetteria che si concedeva, se non era in divisa, stava in tuta e scarpette da ginnastica, pronta sempre a qualche giro di marcia sul lungomare o per le colline intorno. S’era ben presto fatta sui paesani un’idea precisa, cui ogni giorno aggiungeva particolari e sfumature. Due famiglie di ‘ndrangheta, dopo lotte feroci, gestivano insieme gli (scarsi) affari della zona. Tre affiliati – di cui uno seriamente malato – stavano agli arresti domiciliari, sottoposti a controlli a sorpresa. C’erano poi una diecina di sospettabili di questa o quella connessione malavitosa, ma senza prove. Per il resto, piccoli screzi tra vicini, liti familiari per eredità, vecchie storie di corna e di tradimenti, tutte ruotanti intorno a badanti, assurte da povere disgraziate a nuove icone erotiche.

Il brigadiere Ciccio Putortì, che le aveva dato sempre buoni consigli, concordò con lei che l’ipotesi d’un balordo di passaggio non stava in piedi e che a entrare nella casa delle sorelle Labate era stato qualcuno che le conosceva bene e, pertanto, non cercava il denaro che non c’era, bensì altro. Che cosa? A saperlo. Due giorni dopo, il maresciallo Martina Neri, essendo in quel momento sola nella stanza, non dovette sforzarsi di controllare lo stupore all’arrivo, dalla caserma di un paese vicino, di un fax. Avevano arrestato un piccolo pregiudicato col malloppo sottratto alle signorine Labate. Rilesse la cifra per precauzione: diecimila euro.

“Accomodatevi”. Lillina e Marianna l’accolsero timide e vergognose, come fosse colpa loro aver provocato al maresciallo il fastidio d’una visita. S’affrettarono a porgerle una sedia e a prepararle un caffè, servito in una tazzina di porcellana a decori blu, con accanto un piattino colmo di  pasticcini e cioccolatini, inframmezzati di confetti azzurri. “Hanno battezzato il nipotino di Gesualdo, il nostro vicino”, dissero: per spiegare e, forse, scusarsi, di tante leccornie. Non ci volle più di qualche secondo al maresciallo Neri per confermarsi nella convinzione che le due sorelle nulla sapevano di quei soldi. Erano, però, abbastanza i motivi per considerare credibile l’arrestato. Il filo per sbrogliare la matassa poteva essere solo uno: Pasquale Smorto, l’unico parente delle signorine che le andava a trovare con regolarità. Figlio d’una nipote della madre, aveva una trentina d’anni e lavorava da dieci come commesso di un negozio di orologi che da qualche tempo s’era trasferito in un centro commerciale; era incensurato.

Pacata e lucida nel lavoro, in privato Martina Neri era di temperamento romantico, leggeva romanzoni sentimentali e non disdegnava qualche telenovela anni ottanta – ne aveva una serie registrata – che seguiva con rilassata attenzione, mentre la mente collegava e scollegava piccoli indizi in cerca di qualche prova. Le servirono cinque puntate di seguito di una stramba storia –  d’una seconda moglie che alla fine aspettava un figlio da un marito che non avrebbe potuto averne –  per farsi un’idea che la convincesse.

Che fosse quella giusta lo vide negli occhi di Pasquale Smorto che, avvampando d’essere stato scoperto, ritenne fosse il momento di confessare. Gli mancava un esame per laurearsi in Archeologia. I soldi da commesso li dava in casa, ma quelli che guadagnava facendo da più di un decennio il barista di notte, venerdì, sabato e domenica, in un locale sulla costa, li nascondeva in casa delle prozie. Erano la sua riserva per un sogno. Morto suo padre, era rimasto un pezzo di proprietà che nessuno coltivava più: c’erano solo rovi. L’avrebbe scavato. Prendere con le sue mani, ancora sepolta di terra una statuetta greca, una sola. Se c’era una pienezza per la sua vita, lo aspettava lì.


La cena in fiamme


Alle otto di sera di una domenica di gennaio fredda e tersa, il maresciallo Martina Neri apparecchiò, su una tovaglietta a quadrettoni rossi, una succulenta pasta aglio e olio. Alla terza forchettata, mentre assaporava il bruciore del peperoncino sulle labbra, un’esplosione fragorosa sembrò frantumare i vetri. Avrebbe volentieri infilato sulla tuta gli stivaletti al polpaccio e un giacchettone pesante, che stavano sempre pronti all’ingresso, per precipitarsi di volata per le scale. Ma il gambaletto di gesso che le fermava la rottura del v metatarso del piede sinistro, le permise solo di affacciarsi alla porta-finestra della cucina, telefonando, alternativamente e senza risposta, in caserma e ai vigili del fuoco.

Le fiamme, alte, che si scorgevano a metà della strada, poco più d’una mulattiera, che portava dal mare alla collina del cimitero, spostavano l’ipotesi che le si era per un istante affacciata – esplosione di una bomba – sul versante esplosione d’una bombola, senza diminuire, però, le probabilità di vittime.

Una accanto all’altra, due unite da una parete comune, tre separate lo spazio d’un oleandro giovane, c’erano cinque casette vecchie, non dissimili da quelle di antichi presepi. Una appariva quasi distrutta e il fuoco, che continuava a sfaldarla e ad accartocciarla, stava passando al tetto della casa gemella. Nell’aria si spandeva un sentore acre di pece e, per terra, i frammenti dei vetri delle macchine parcheggiate nello spiazzo antistante le fiamme. Per primo arrivò Andrea Malara, giovane cronista di punta di una tv locale, poi la camionetta dei carabinieri – vide il brigadiere Ciccio Putortì che s’inoltrava nel fumo – seguita da Giuseppina Dascola, corrispondente di un quotidiano, in compagnia di Piero Laganà, fotografo. Per ultimi giunsero i vigili, costretti a girare più volte nel labirinto delle stradine, ma rapidi nell’evitare che il fuoco, che cresceva velocemente – fortuna che non c’era vento – attaccasse la cucina della seconda casa, provocando l’esplosione d’una seconda bombola.

Giuseppina Dascola, un cappottino nero due misure più grandi delle sue ridotte dimensioni, avrebbe visibilmente preferito stare altrove. Andrea Malara, come rassegnato a tutta una notte di passi lenti, andava avanti e indietro, parlando ininterrottamente al cellulare, non si capiva se per dare o ricevere informazioni. Sul sito della sua emittente – la prima a dare la notizia dell’esplosione – apparvero ben presto i particolari. Vi si diceva che erano morte due persone, il padrone di casa, che aveva orchestrato uno spettacolare suicidio, e, forse, un’altra persona, ancora non identificata.
Martina Neri, già infastidita dal non guidare personalmente le indagini, ne ebbe un moto di repulsa e di indignazione. Che il signor Luigi Ficara, proprietario di quella casa, avesse deciso di suicidarsi le pareva molto improbabile. Di poche parole e modi spicci, si poteva anche immaginare avesse qualche problema familiare ed economico – più o meno come tutti – ma non ce lo vedeva proprio a sceneggiare un’autodistruzione così allargata. E, comunque, per rispetto ai familiari, non si poteva gettare fango sullo strazio della famiglia.

La rabbia, che s’avvitava su se stessa come zucchero filato andato a male, sfumò alla telefonata di Malara. Declinò il suo invito ad una qualche dichiarazione, ma ne approfittò per avere informazioni. Il cronista le disse che, a parlare di suicidio, era stata la moglie che, tornata da una visita ad una sorella in una contrada vicina e trovandosi di fronte a quel disfacimento della sua casa, aveva cominciato ad inveire contro un uomo che, a sentirla, non ne aveva mai indovinata una e, ora, come ultimo dispetto, facendole il favore di renderla vedova, la sfregiava, però, privandola di un tetto. Quanto al secondo morto – già sparito dalle notizie flash del sito – era tutto un equivoco. La signora Rosa Libri aveva visto da quelle parti, nel pomeriggio, Luisanna Bova che s’era temuto potesse essere stata, in qualche modo, colpita dalla deflagrazione, finché Mariano Riggio non aveva assicurato d’averla vista salire su un pullman diretto in città almeno un’ora prima dello scoppio.
Fino a quel momento, Martina Neri aveva messo al primo posto nelle ipotesi una fuga di gas – chissà, una bombola difettosa, comprata di stramacchio, che aveva saturato la casa per ore e ore e, poi, provocato la deflagrazione quando il povero Luigi Ficara aveva girato la chiave nella toppa e aveva, da fuori, acceso la luce. Ma quel riferimento a Luisanna le esplose, in mente, girandole di pensieri. Di Luisanna Bova, in paese, a bocca piena si diceva ch’era pazza. Poi la voce s’abbassava, le labbra si storcevano in una smorfia di incredula perplessità e si accennava appena a qualche suo nuovo colpo di testa. Tutto era cominciato quando aveva rifiutato un fidanzato fortemente consigliatole dal fratello. A lei quel ragazzo bruno, alto, dagli occhi di brace ardente non dispiaceva, ma ogni volta che se lo trovava di fronte, avvertiva come l’allarme di un pericolo, di cui aveva colto la concretezza una notte di luna piena sul mare. Non riuscendo a dormire, s’era messa a camminare in camera sua, al buio e, da lì, aveva intravisto movimenti che le lasciarono pochi dubbi sul fatto che trafficasse in qualcosa, armi o droga, o, magari, tutt’e due. Pochi giorni dopo, don Mico ‘u longu – nessuno osava neppure sfiorare con la propria voce il suo cognome – le aveva fatto recapitare, da uno scagnozzo, tutto il suo disprezzo, per poi grandinarle di persona, in una curva stretta, un vocabolario che da puttana iniziava e a troia finiva. Luisanna non capì in che cosa avesse creato disturbo, ma prese la via della caserma, che molte altre volte avrebbe ripercorso, riempiendo faldoni di denunce per illegalità evidenti, che nessuno, però, vedeva. Non viveva più in paese da tempo, ma talvolta vi passava la domenica pomeriggio in una casetta ereditata da una lontana zia. Anche quella, a suo tempo, definita, in paese, pazza, perché aveva rifiutato le violente attenzioni dello zio di don Mico, rassegnandosi, poi – giacché nessuno aveva trovato il coraggio di sposarla – ad una vita da zitella.

Per ore, Martina Neri rimase seduta dietro la finestra della sua cucina, le fiamme che continuavano a crepitare, il fumo sempre più alto, vigili, carabinieri e cronisti, sempre lì, ognuno al suo lavoro e, per il resto, solitudine e silenzio. Nessuna piccola folla, niente curiosi e, oltre il rumore dei motori che alimentavano le pompe di spegnimento, quasi nessun brusìo. Alle quattro del mattino, quando vide arrivare una nuova macchina dei carabinieri, non ebbe dubbi che il brigadiere Ciccio Putortì, prima di andarsi a buttare qualche ora su un letto, sarebbe prima passato ad aggiornarla. Tirò perciò fuori da una credenza dei biscotti all’anice e accese il fuoco per il caffè. Il brigadiere lasciò i biscotti e chiese del latte caldo in cui versò le tre tazzine della macchinetta. Fece poi una lista dei fatti: il morto l’avevano trovato riverso ai bordi della strada opposti alla casa. Forse, aveva acceso la luce prima ancora di varcare la soglia. La bombola in cucina doveva essere difettosa. La moglie, dopo i primi improperi, pareva entrata in uno stato di catalessi ed era stata portata via da alcune vicine. I due figli, che abitavano entrambi al Nord, erano stati avvertiti. Il giudice Paolo Borzumati in rapido giro, non aveva detto quasi nulla, ma pareva escludere che ci fosse qualcosa di più o di diverso da una morte casuale, con annessa ipotesi di reato per il malfunzionamento della bombola e presumibile guerra degli eredi per un debito risarcimento. “La cosa più strana è che non più di un’ora prima dello scoppio, da quelle parti c’era Luisanna Bova…”.

Quando il maresciallo Neri tornò al lavoro, l’inchiesta per la casa bruciata – quelle pietre scomposte e dolenti le rovinavano una visuale che, in precedenza, aveva trovato sempre calmante – stava per chiudersi avvalorando le ipotesi del giudice Borzumati. Che fossero le più logiche, né il maresciallo né il brigadiere avevano dubbi. Ma, poiché entrambi erano convinti che, a comprendere le umane cose, la logica non basta, nel tempo libero, continuarono ad occuparsi del caso. Non ricavarono molto finché non scoprirono che la moglie del morto era stata battezzata dalla madre del mancato fidanzato di Luisanna. Che stava ora in galera, con un cumulo di pena di anni quindici, suscettibili di aumento con il proseguire delle inchieste. Era stata Anna Fichera, cugina della zia di Luisanna, a invitarla a cena per le 20.30 – “Mio marito va alla partita, di pomeriggio, poi ti accompagniamo noi a casa” – con la scusa di darle certi lavori all’uncinetto che aveva trovato, insieme a certe foto della zia. Ed era stata lei ad allentare la bombola, pensando che, al suono del campanello, qualcosa sarebbe successo e gli anni di galera del suo comparello non sarebbero cresciuti troppo.
Prima di andare a parlare col giudice, Martina Neri andò a comprare dei fiori nel negozio con cui Luisanna campava da una diecina d’anni e le chiese com’è che, arrivata in paese, se ne fosse andata prima della cena. Occhi nerissimi nel volto pallido, i capelli tirati indietro e il collo coperto da una sciarpa nera con su appuntato un fiore di feltro color ruggine, Luisanna fece un gesto come per dire: “Non lo so”, poi ci pensò su e rispose: “C’è un attimo che mi cambia il tempo. Prima e dopo, tutto è normale, opaco, ma in quell’istante l’aria che entra nelle narici mi gela i capillari e il nervo sull’occhio sinistro si fa brace fino alla nuca. Quello, per me, è il momento di scappare”.


Pubblicate su Zoomsud:




Nessun commento:

Posta un commento