martedì 4 giugno 2019

Natalia Ginzburg e il "solo pensiero essenziale"






«Perché tutto quanto riguarda la morte, e tutto quanto riguarda Dio, è, per chi crede come per chi non crede, di un’importanza essenziale: e non c’è dubbio che è la sola cosa veramente essenziale a cui possa succederci di pensare.»

Condivido questo pensiero che Natalia Ginzburg fissa in uno scritto del luglio 1970, L’infanzia e la morte, raccolto nel libro Mai devi domandarmi, pubblicato nel novembre di quello stesso anno.

L’ho letto negli ultimi giorni, poche pagine ogni mattina, con lo stesso piacere che si prova alla luce quieta e tersa di certe albe. Nel risvolto di copertina, Enzo Siciliano scrive: «Questo libro, dove il racconto sfuma in riflessione, o viceversa, dove gli stimoli e i problemi del mondo di oggi affiorano con la prepotenza con cui li viviamo, più che uno zibaldone di pensieri, o lo scartafaccio in cui la propria vita è raccontata, appare, nel terzo disegno dei suoi capitoli staccati e tutti uniti dalla medesima possibilità, come il romanzo che mai nessuno racconta a se stesso. Il romanzo dei propri incontri con la realtà, delle proprie risposte tutte indirizzate a capirla e a scioglierla dagli enigmi intellettualistici dietro cui molti amano celarla. Un romanzo di cui si è solo noi protagonisti, ma che per essere tale bisogna che ogni vistoso narcisismo sia obliterato – e il mondo, nella sua ricchezza prospettica prenda a mandare il suo arcano suono melodioso che è difficile far sentire. Natalia Ginzburg vi riesce quando il suo “io”, delicatamente va a nascondersi dietro un proprio antico dolore, e di là parla con la dolcezza quieta e arresa dei saggi.»

Mai devi domandarmi è pieno di piccole perle, cito solo una frase - poesia. «Ma io avrei voluto, per un attimo, esistere nel campo del suo sguardo» (Da La grande signorina, in cui parla Ivy Compton Burnett) e il capitolo Sul credere e non credere in Dio.

Dopo la morte e Dio, come domande che implicano risposte fondanti sulla vita, ci metterei la politica, la cultura (nelle sue molteplici espressioni, ma soprattutto nella dimensione parola: detta e scritta) e la coltura (dalla coltivazione della terra, da cui veniamo e a cui torniamo ad ogni mestiere ed attività che faccia crescere ciò che negli uomini è umano).

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