«Il terremoto è un sibilo che nasce
dal mare, s’incunea nella notte. Gonfia, cresce, si trasforma in un rombo che
lacera il silenzio. Nelle case, la gente dorme. Alcuni si svegliano con il
tintinnio delle stoviglie; altri quando le porte iniziano a sbattere. Tutti,
però, sono in piedi quando le pareti tremano. Muggiti, abbaiare di cani,
preghiere, imprecazioni. Le montagne si scrollano di dosso roccia e fango, il
mondo si capovolge. La scossa arriva a contrada Pietraliscia, afferra le
fondamenta di una casa, le scuote con violenza.» È il
1799, solo qualche anno prima, nel 1783 Bagnara aveva subito un terremoto
devastante e solo «pochi mesi prima c’erano stati grandi sconvolgimenti nel
Regno di Napoli», ma, in Calabria, «era arrivata solo l’ultima onda di quella
rivoluzione.»
La casa in cui
vive la famiglia Florio subisce dei danni ma resta in piedi e così lo schifazzo
con cui commerciano con la Sicilia, pesce e soprattutto spezie, ma Paolo, il
capofamiglia, decide che è il momento di lasciare la Calabria. Dice al fratello
Ignazio: «“In
realtà ci sto pensando da tempo. La scossa di stanotte mi ha convinto che è la
cosa giusta. Non voglio che Vincenzo cresca qui, con il rischio di vedersi cadere
addosso la casa. E poi...” Lo guarda. “Voglio di più, Igna’. Questo paese non
mi basta più. Questa vita non mi basta più. Voglio andare a Palermo.”»
Comincia così quella saga dei Florio che Stefania Auci ricostruisce in un romanzo
d’esordio di grande fascinazione e di rara grazia. I leoni di Sicilia (Nord editore).
La piccola putia, niente più che un deposito sporco e umido di merci, diventa
un laboratorio di «cannella, pepe, cumino, anice, coriandolo, zafferano,
sommacco, cassia...No, non servono solo per cucinare, le spezie. Sono farmaci,
sono cosmetici, sono veleni, sono profumi e memorie di terre lontane che in
pochi hanno visto.» L’allargamento degli affari dell’aromateria ai Florio non
basta. Verrà anche la vendita di un vino, «nato per caso e diventato il sapore
di un’epoca»: «Il mare, la componente calcarea della sabbia, la temperatura
costante sono ciò che hanno reso tale questo vino liquoroso. (…) Perché la
sabbia che si deposita sui coppi di terracotta che coprono il sale è la stessa
che mulina tra le bottiglie lasciate a riposare nelle viscere delle cantine. È
una sabbia che porta in sé granelli di sale, che ha il profumo del mare. È lei
che regala quel sapore secco, quell’incertezza che confonde, quel gusto appena
accennato di mare a un vino che, diversamente, sarebbe un vino dolce come tutti
gli altri.» Arriverà un’innovazione che porterà alle scatolette di tonno «“Che
non ci sarà più soltanto tonno sotto sale”, spiega Vincenzo, senza guardarlo. “Voi
sapete che viene considerato causa dello scorbuto, vero? Ed è per questo che
molto resta invenduto, perché le compagnie di navigazione e i marinai non si
fidano più. Così noi faremo qualcosa di nuovo.” Fissa il rais negli occhi di
onice e finalmente scorge una luce di meraviglia. “Dal piroscafo che mi ha
portato qui, in questo preciso istante, stanno sbarcando parecchi cafisi4 di
olio. Il tonno verrà diviso e bollito, e poi conservato sott’olio in barili a
tenuta stagna.”» Arriveranno i piroscafi della compagnia di navigazione, i
Florio detteranno le loro leggi prima ai Borbone e poi ai Savoia, ma
continueranno ad avere fame. In
un’epoca in cui il sangue nobile, lo stemma sul portone e il titolo continuano
a pesare, nessuna ascesa sociale ed economica riesce ad annullare completamente
un’origine da facchini. Questa morsa
all’orgoglio sarà la spinta a innovare, a guardare ben al di là della Sicilia.
Intessuto di lavoro, di innovazioni
tecniche, di mercato e di imprenditoria, argomenti che ben poco entrano nella
nostra narrativa, I leoni di Sicilia ripercorre
un secolo del nostro Sud, della Sicilia, in particolare, ma anche della
Calabria, terra di mezzo tra Napoli e Palermo destinata dai Borbone a nessuno
sviluppo economico-sociale: Bagnara resterà costante rimpianto di Giuseppina
che, costretta dal marito a lasciarla, continuerà fino alla morte a considerarla
la sua vera casa.
Due grandi storie d’amore attraversano il
romanzo di Stefania Auci. Quella, muta di parole e solo talvolta appena
percettibile nei gesti di cura quotidiani tra il riflessivo, silenzioso,
protettivo Ignazio la dura, spigolosa, Giuseppina, sposa senz’amore di Paolo,
poi vedova turbata dal suo stesso disamore, madre devota e possessiva. E
quella, tutt’altro che convenzionale, tra Vincenzo, volitivo, intraprendente,
orgoglioso Vincenzo e Giulia, dolce e forte, prima sua amante e mantenuta, solo dopo la nascita del
terzo figlio, il maschio che, finalmente, garantisce la continuità del nome di
famiglia, sua moglie, ma sempre in grado di tenergli testa, di stargli a pari,
in un’epoca in cui le donne erano costrette a stare solo dietro e sotto i loro
compagni di vita.
Una scrittura semplice, lineare, priva di
asperità esalta un racconto che unisce la concretezza dei fatti reali agli
immaginati più reconditi pensieri dei protagonisti. Un senso come di meraviglia
e di luce percorre tutto il libro, che pulsa di vita in tutte le sue
sfaccettature: il groviglio di spirito e carne che lega o allontana una coppia,
l’ambivalenza del sentimento materno, l’amore-odio tra parenti, la preziosità
dell’amicizia, soprattutto quando è rara, l’urgenza di affermarsi, la
malinconia per quel misterioso qualcosa di essenziale che, alla fine, sembra
essere sfuggito anche a coloro che, la loro partita, sembrano averla vinta.
Arrivati alla fine delle quasi
quattrocento pagine di questo romanzo storico, fresco e appassionante più di
una vicenda contemporanea, c’è davvero il rimpianto (cosa che capita molto di
rado) di dover chiudere il libro. Ma non è difficile immaginare che arriverà
presto un secondo volume di questi leoni
di Sicilia: uno dei libri italiani più belli degli ultimi anni.
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