Rosella diceva sempre no – meglio, declinava ogni
invito (talvolta come fosse una liberazione, talaltra con la malinconia
strisciante dell’occasione persa, più spesso con entrambe le sensazioni) – a
tutto ciò che avesse una parvenza, anche labile, di piacere, un pranzo, un
film, una passeggiata.
Diceva invece sempre sì – magari non sempre convinti e
in più d’un’occasione borbottando un po’ – a tutto ciò che era o le sembrava
fosse, dovere, finendo col piegare le spalle per caricarsi le attività di
lavoro: quelle che le toccavano, quelle che, magari, toccavano ad altri e, per
soprammercato, anche quelle che, in fondo, si sarebbero potute evitare ma
sarebbe sembrato brutto.
Sapeva che, se appena avesse voluto pensarci bene,
avrebbe ritrovato, nella sua vita, tutti i fili che a quei sì e a quei no
portavano, ma per radicata abitudine metteva quel pensiero tra parentesi di
fronte ad ogni nuova richiesta cui dava risposte consuete.
Non che qualcuno le ponesse molte domande cui dire no;
facilmente finiva col dire sì. Convinta, contenta, stanca o lievemente nauseata
che fosse.
Spolverando i libri che riempivano la casa – da
giovane ne era orgogliosa, da anni ormai se ne sentiva sempre più schiacciata,
come di una corazza che soffoca più che proteggere – si chiedeva quanta vita le
avessero tolto. Certo, le avevano colmato vuoto e solitudine, le avevano dato
pensieri e sfumature di emozioni. Coperte per riscaldarla, cappelli di paglia
per proteggerla dal sole, tappi per frenare le emorragie del cuore, ancore per
evitare ai venti di trascinarla. Ma.
Tutti quei miliardi e miliardi di parole che aveva
accumulato nella sua vita. Senza aver almeno imparato a dire no. Senza sensi di
colpa, senza rimuginarsi su. A tutta la fatica inutile che, proprio a volerle
dare un merito, ne aveva avuto solo uno. Era stato l’alibi per nascondere la
sua difficoltà di vivere.
Nessun commento:
Posta un commento