Il maresciallo Martina Neri si alzava sempre all’alba.
Quelle ore di silenzio prima del lavoro le sembravano
perfette perché inattaccabili dal male. Nulla di davvero brutto poteva
succedere quando ancora dormivano tutti, eccezion fatta per qualche vecchio
contadino che stava già innaffiando il giardino, Mico il pescatore e due o tre
panettieri e, per strada, non si sarebbe potuto incontrare nessuno, se non il
macchinista Antonio quando gli toccava il treno del mattino.
Quel giorno però Martina Neri s’era svegliata troppo
presto e con la testa trapanata da una nevralgia che denunciava qualche sogno
contorto di cui non ricordava nulla, se non sensazioni sgradevoli e fastidiose.
Riscaldò un dito di latte, lo mescolò con i resti di
caffè del giorno prima e lo versò su un pugno di fiocchi di cereali: aveva
bisogno di mangiare qualcosa per prendere una pillola che le restituisse una
qualche capacità di ragionare.
Quando il peso alla testa s’allentò, prese un libro
che il brigadiere Ciccio Putortì le aveva regalato mesi prima, ma lo lasciò
dopo poche pagine. I gialli non le piacevano. Quel rinchiudere la complessità
del reale nel recinto di una sorta di caccia al tesoro capace, ogni volta, di
isolare il malvagio (beninteso, dopo che aveva prodotto il male), le pareva un
narrare facilmente pigro. Una volta stabilite (a posteriori) le tessere, il
puzzle non poteva che riuscire semplice, altro che il suo lavoro lento e,
spesso, penosamente inconcludente.
Appena cominciò a schiarire – la luna era ancora alta
sul mare, mentre al di là delle colline s’intravvedevano i rosati dell’aurora –
mise una tuta e delle scarpette da ginnastica e, superata la caserma tra due
alti pini marini per metà ricoperti da una buganvillea che faceva da arco sul
portone, legando i due in un solo albero, deviò verso la strada, pochi passi,
che portava al mare.
Dall’angolo dov’erano ammucchiati quattro o cinque
contenitori traboccanti di spazzatura, quasi una piccola discarica, proveniva
un odore nauseabondo che cedeva, poco più in là, a quello dolce di una siepe di
roselline tardive. I girasoli avevano quasi raggiunto, in altezza, i due alberi
di melograno, i cui frutti ingrossavano lentamente.
Il mare – immobile nelle sfumature d’azzurro chiaro,
che si faceva più scuro sulle montagne siciliane che lo contornavano, con
l’Etna aureolata di nuvole candide – la riempì. Occhi, cuore, pelle, tutto in
lei, per un attimo che le sembrò infinito, respirò luce e bellezza.
La costa aveva un andamento a piccole conche –
qualcuna con pochi metri di sabbia e brecciolino, qualche altra con schiere di
ville che avevano annullato ogni segno di spiaggia. Attraversata qui e là,
quest’ultima, dove c’era, da fiumarelle d’acque torbide e maleodoranti che
finivano a mare oppure rinchiusa dietro grate carcerarie per segnalarne la
proprietà privata.
Martina Neri camminò fino alla piccola ansa dov’era
certa di poter trovare le conchiglie. Ne raccolse qualcuna, piccolissima, e
provò a isolare, nel suo sguardo, i residui di brucare, la grande mimosa che di
primavera era un trionfo di giallo, le barche incrostate di salsedine. Ma non
riuscì a trovare un ritmo quieto di respiro.
Lì era stato commesso un reato enorme, fatto di
piccoli e grandi illeciti, indifferenze interessate e impossibili reazioni,
occhi socchiusi e parole smozzicate, un groviglio di colpe, limiti ed errori,
cui neppure un grande giallista avrebbe potuto trovare felice soluzione, dando
scacco al male in un po’ di mosse.
Un reato contro l’umanità, da corte internazionale.
Era stata deturpata le bellezza assoluta che il Grande Caso o un Dio Creatore
vi aveva generosamente profuso fin dall’eternità.
Pubblicato su Zoomsud col titolo Un caso che neppure un giallista, nella serie Racconti reggini http://www.zoomsud.it/commenti/54618-racconti-reggini-un-caso-che-neppure-un-giallista.
Sul maresciallo Marina Neri, nella stessa serie erano stati in precedenza pubblicati: La buganvillae della caserma, La cena
in fiamme del maresciallo Martina Neri e Delitto a Natale
Il commissario Martina Neri si alzava sempre all’alba.
Quelle ore di silenzio prima del lavoro
le sembravano perfette perché inattaccabili dal male. Nulla di davvero
brutto poteva succedere quando ancora dormivano tutti, eccezion fatta
per qualche vecchio contadino che stava già innaffiando il giardino,
Mico il pescatore e due o tre panettieri e, per strada, non si sarebbe
potuto incontrare nessuno, se non il macchinista Antonio quando gli
toccava il treno del mattino.
Quel giorno però Martina Neri s’era
svegliata troppo presto e con la testa trapanata da una nevralgia che
denunciava qualche sogno contorto di cui non ricordava nulla, se non
sensazioni sgradevoli e fastidiose.
Riscaldò un dito di latte, lo mescolò
con i resti di caffè del giorno prima e lo versò su un pugno di fiocchi
di cereali: aveva bisogno di mangiare qualcosa per prendere una pillola
che le restituisse una qualche capacità di ragionare.
Quando il peso alla testa s’allentò,
prese un libro che il brigadiere Ciccio Putortì le aveva regalato mesi
prima, ma lo lasciò dopo poche pagine. I gialli non le piacevano. Quel
rinchiudere la complessità del reale nel recinto di una sorta di caccia
al tesoro capace, ogni volta, di isolare il malvagio (beninteso, dopo
che aveva prodotto il male), le pareva un narrare facilmente pigro. Una
volta stabilite (a posteriori) le tessere, il puzzle non poteva che
riuscire semplice, altro che il suo lavoro lento e, spesso, penosamente
inconcludente.
Appena cominciò a schiarire – la luna
era ancora alta sul mare, mentre al di là delle colline s’intravvedevano
i rosati dell’aurora – mise una tuta e delle scarpette da ginnastica e,
superata la caserma tra due alti pini marini per metà ricoperti da una
buganvillea che faceva da arco sul portone, legando i due in un solo
albero, deviò verso la strada, pochi passi, che portava al mare.
Dall’angolo dov’erano ammucchiati
quattro o cinque contenitori traboccanti di spazzatura, quasi una
piccola discarica, proveniva un odore nauseabondo che cedeva, poco più
in là, a quello dolce di una siepe di roselline tardive. I girasoli
avevano quasi raggiunto, in altezza, i due alberi di melograno, i cui
frutti ingrossavano lentamente.
Il mare – immobile nelle sfumature
d’azzurro chiaro, che si faceva più scuro sulle montagne siciliane che
lo contornavano, con l’Etna aureolata di nuvole candide – la riempì.
Occhi, cuore, pelle, tutto in lei, per un attimo che le sembrò infinito,
respirò luce e bellezza.
La costa aveva un andamento a piccole
conche – qualcuna con pochi metri di sabbia e brecciolino, qualche altra
con schiere di ville che avevano annullato ogni segno di spiaggia.
Attraversata qui e là, quest’ultima, dove c’era, da fiumarelle d’acque
torbide e maleodoranti che finivano a mare oppure rinchiusa dietro grate
carcerarie per segnalarne la proprietà privata.
Martina Neri camminò fino alla piccola
ansa dov’era certa di poter trovare le conchiglie. Ne raccolse qualcuna,
piccolissima, e provò a isolare, nel suo sguardo, i residui di brucare,
la grande mimosa che di primavera era un trionfo di giallo, le barche
incrostate di salsedine. Ma non riuscì a trovare un ritmo quieto di
respiro.
Lì era stato commesso un reato enorme,
fatto di piccoli e grandi illeciti, indifferenze interessate e
impossibili reazioni, occhi socchiusi e parole smozzicate, un groviglio
di colpe, limiti ed errori, cui neppure un grande giallista avrebbe
potuto trovare felice soluzione, dando scacco al male in un po’ di
mosse.
Un reato contro l’umanità, da corte
internazionale. Era stata deturpata le bellezza assoluta che il Grande
Caso o un Dio Creatore vi aveva generosamente profuso fin dall’eternità.
N.B. Nella serie Racconti reggini sono stati già dedicati al commissatio Marina Neri: La buganvillae della caserma, La cena in fiamme del maresciallo Martina Neri e Delitto a Natale
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Come non condividere il fastidio, lieve ma convinto, per la sovrabbondanza dei 'gialli'?
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