«E’ un dono inatteso questo romanzo postumo di Luisito
Bianchi. Un dono inatteso e prezioso, perché si tratta di un testo di altissimo
livello. Un’opera che se la nostra società letteraria non fosse così distratta
e dominata da un’assurda forza centrifuga (….) Non pensiamo di esagerare se
affermiamo che Il seminarista è un
piccolo capolavoro…».
Sul Domenicale
del Sole del 30 giugno la recensione di Roberto Carnero mi fa scoprire – è
mai possibile che, leggo, leggo e mi sfuggono per anni i pochi nomi che
andrebbero davvero letti? – un libro e un autore a me sconosciuto.
Meravigliosa Amazon (so bene che tanti la guardano
male, per me è una benedizione), il libro mi arriva martedì 2 luglio. Ne leggo
due terzi e mi fermo. Mi obbligo a fermarmi perché mercoledì non avrò giornata
facile e un po’ di luce e di bellezza saranno davvero un balsamo.
Domani ordinerò La
messa dell’uomo disarmato. Intanto, passo su Google che mi fornisce un po’
di pagine su don Luisito Bianchi.
(Da qualche parte, Baudelaire ha scritto che, mentre
tutti gli altri «sono soggetti a taglie e
servitù, son fatti per la scuderia, cioè per esercitare quelle che si chiamano
professioni», il prete, il guerriero e il poeta sono le tre persone davvero «rispettabili».
Affermazione molto opinabile, se non nel primo
segmento. Poche figure sono così misteriose – nello stesso tempo fuori e dentro
il mondo – come i preti. Pochissime così potenzialmente letterarie. Così pochi,
in fondo, in duemila anni di cristianesimo, protagonisti di testi letterari.)
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