Certo,
poi, ognuno ha la sua vita, con i suoi personali dolori e le proprie private
gioie.
Ma è come se tutti, o almeno tantissimi, in Italia, vivessimo ormai dentro
un’aria malsana, che aggiunge ogni giorno altri sensi di sgomento e sfiducia alla
stanchezza e all’umiliazione di ritrovarci così.
Contesto
che rende difficilissimo non solo alzarsi ogni mattino pronti ad adempiere, per
la propria parte, i propri doveri di cittadino, ma, soprattutto, provare a
farlo con fiducia.
Chi
osa pensare in grande, proporre un dibattito alto? Pochi, pochissimi. Almeno
all’evidenza. Tutti o quasi bloccati in una palude senza respiro.
Eppure.
Bisognerà pure fare uno sforzo per pensare in prospettiva, per uscire, con la
mente, dal baratro e riguardare l’orizzonte lontano, perché “chi bada al vento
non semina mai, e chi osserva le nuvole non miete”. (Qoelet 11, 4)
Questo
è quello che ho scritto su Zoomsud venerdì 19, anniversario della strage di via
D’Amelio
Solo nell’autunno del 2010, per la prima volta,
ho visitato la vecchia (e solitamente inaccessibile) Torre.
Mi occupavo già da tempo dei detenuti politici
che, nell’ultima fase del governo borbonico, avevano conosciuto la nostra isola
e Poerio, Castromediano, Nisco – ovvero gli stessi personaggi descritti dalla
Banti in Noi credevamo e ripresi da Martone nel film omonimo (anche se
nella fase in cui la loro prigionia si svolse a Montefusco, lo Spielberg
italiano) – e tutti gli altri mi erano ormai diventati familiari.
Quando, nel marzo 2011, diedi conto dell’intero
iter didattico che ci aveva portato alla pubblicazione di un volume di Racconti
per Nisida e l’Unità d’Italia, descrissi così quella mia breve visita:
«“…una fortezza ovale in
mezzo al mare,/i prigionieri in celle sotto l'acqua:/son patrioti incolpati di
congiura,/poeti, ma anche chi parla soltanto/candidamente, non da sovversivo”.
Herman Melville ha scritto queste righe per Castel dell’Ovo, ma possono rendere
l’idea. Entrare da una piccola apertura nella pietra è sprofondare nel buio
circolare, cui la luce di una potente torcia elettrica non toglie il freddo e
l’assoluto isolamento. Ci sono celle anguste – chissà come ci si poteva
stendere – con i ceppi scuriti dal tempo, certo, ma, forse, anche dal sangue.
Piccolissime aperture in alto accedono solo all’interno: chi sta dentro nulla
può sapere del cielo e del mare. Qui e là, alle pareti ci sono dei nomi e
qualche graffito. Qualcuno ha disegnato un bambino, chissà, un figlio piccino».
E continuai raccontando
un’emozione:
«Per tutto il percorso mi è
cresciuto un sogno.
Se potessero tornare per un
solo giorno, giovani e liberi, sull’isola, forse avrebbero piacere ad
affacciarsi su porto Paone o risalire i sentieri più impervi, respirando
salsedine e natura mediterranea. Forse. Quello che di certo farebbero tutti con
entusiasmo è partecipare ad un incontro del nostro Laboratorio di politica.
(…) Personaggi noti ai più
solo come nomi di vie, piazze, scuole, monumenti e per noi, in questi mesi,
diventati – tornati ad essere – persone: con le loro fisionomie particolari, i
singoli caratteri, le abitudini quotidiane, le piccole fisime e le grandi
passioni. I volti intensi di chi ha vissuto con dignità, affrontando a viso
aperto la lotta e le sue conseguenze, per un’idea. Pagata a caro prezzo e
realizzata in parte. Gente che, dovendo di nuovo scegliere, di nuovo sceglierebbe
la galera. Come il protagonista di quel grande romanzo di Anna Banti che è
Noi credevamo: “E’ diritto di ognuno scegliere la libertà che gli
conviene, e la mia era il carcere… Rischiare la morte e soffrire un lungo
carcere per l’Italia era stata la mia scelta, la mia personale avventura:
aspettarne privilegi e compensi mi sarebbe parso degradante”. Certe loro parole
sulla Costituzione, sull’Italia unita, sulla scuola e la giustizia, così
antiche e talmente moderne che si tratta, magari, di spiegarle come ogni
sconosciuta parola, ma certo non di cambiarle».
Il progetto in questione –
l’antologia di racconti ispirati a quelli della torre, elaborati in
collaborazione tra scrittori e ragazzi – non è stato, oggettivamente, il
più importante tra quelli di cui, fino ad ora, ho avuto l’opportunità di
occuparmi a Nisida, ma lo è stato di certo sul piano soggettivo.
Perché mi emoziona
profondamente l’eroismo semplice di chi, da Carlo Poerio a Paolo Borsellino
(ucciso, con la sua scorta, il 19 luglio del 1992), spende la sua vita, senza
tener conto di sacrifici e morte, onorando fino in fondo la sua dignità di cittadino,
di persona.
Ed è stato un impatto
emozionale forte, nel leggere Il Patriota e la maestra di Vito Teti
ritrovare quel manipolo di martiri ed eroi, attraverso l’esperienza di
Antonio Garcea, numero 26 dell’elenco dei 65 (tra cui 13 calabresi) condannati,
inviati, dopo anni e anni passati nelle carceri borboniche, a Cadice per la
deportazione in America nell’ultimissima fase del regime, dirottati poi dal
figlio di Settembrini in Irlanda e rientrati dall’Inghilterra in Italia in gran
numero, prima della spedizione dei Mille.
Scrive Vito Teti:
«.…la sera del 20
luglio i due vapori con i 1500 prigionieri incatenati attraccano a Nisida.
Chiunque si porti sulla
deliziosa sponda di Baia, vedrà affacciare una piccola isola sulla cui più alta
estremità fa deliziosa pompa un fabbricato, tanto che per chi lo mira mai non
si sente sazio. La sua amena altezza, la sua posizione, i venti che per
necessità vi son perenni, e che or impetuosi or lenti vi soffiano, fanno
credere quello un sito più delizioso che mai al mondo si trovi (Bertòla 1862:
19).
Giovanna Bertòla
evidenzia il contrasto tra la bellezza dei luoghi e le tristi condizioni delle
persone che li abitano. Quel bellissimo posto «è un luogo di martirio al par
d’ogni altro più crudele» (ivi: 19-20).
Con parole simili,
Nicola Palermo descrive Nisida e nota come un «luogo delizioso e grato» sia
stato trasformato in «un luogo di tutto tormento, un luogo di dolore!» per
millecinquecento condannati, trascinati da una lunga catena di ferro, che
tirano gemendo, respirando «aere mefitico» nelle grotte, «viscere della terra»
(Palermo 1863: 30-31). In una «deliziosa grotta», la «dispotica mano», aggiunge
Bertòla, ha rinchiuso mille e cinquecento «infelici condannati, che trascinano,
senza doversi stancare, non corta e non leggiera catena». Umidità e oscurità,
rumore di catene, molestie di insetti «schifosissimi e abbondanti»: l’uomo è
rinchiuso come «belva feroce», marcisce «nella miseria e nell’ignoranza», in un
luogo dove prosperano vizi e depravazione. Garcèa e i suoi compagni ricevono la
«zuppa in certe tinozza di legno»: quattro once di fave, cotte appena,
«mischiate ad un quarto di oncia d’olio, un nerissimo panello». Non ci sono
scodelle: i prigionieri, vinti dal prolungato digiuno, si fanno versare la
zuppa nel cappello o nel fazzoletto o per terra. Assaggiata la zuppa,
preferiscono il solo pezzo di pane. Solo in pochi riescono a dormire mentre gli
insetti succhiano loro il sangue, tra i rumori delle catene.
Il 10 agosto arrivano
gli ufficiali di una commissione di polizia: indagano se fra i prigionieri ci
siano elementi ricercati. Garcèa viene individuato e insieme a centosessanta
siciliani viene portato a Napoli per essere trasferito a Capua. (…)
Nella notte tra il 9 e
il 10 marzo del 1849 Garcèa e i suoi compagni vengono riportati a Nisida e ne
sono felici, perché ritengono che là avrebbero ricevuto un trattamento
migliore. Nisida è sotto assedio per il timore che un’incursione di navi
siciliane possa liberare i prigionieri. Bertòla descrive la solidarietà
immediatamente scattata tra i prigionieri: «L’animo che nutre verso l’amico un
affetto vero, un affetto costante, quando lo vede in condizione triste e
bisognosa, non soffre no, d’assoggettarsi a qualunque privazione, ma gode e
gioisce quando giunge il primo a prestargli soccorso e ristoro!» (ibid.).
I carcerati di Nisida, infatti, all’arrivo dei loro compagni si privano di una
parte della loro razione di cibo; gli ammalati all’ospedale vi rinunciarono del
tutto. Garcèa rimane a Nisida per ventitré, terribili, mesi in cui la crudeltà
del carcere viene aggravata dall’esperienza della solitudine, dall’incertezza
sui tempi di svolgimento e sull’esito del processo, e soprattutto dalla notizia
della morte del fratello Graziano, caduto sotto il forte di Marghera
combattendo per Venezia, secondo la ricostruzione di Gian Paolo Garcèa (1960),
durante la battaglia del 25 e 26 maggio 1849, terminando «in tal modo
gloriosamente la carriera del soldato e della vita a 21 anno [sic]»,
come Alessandro Poerio, fratello di Carlo, morto combattendo per la stessa
causa».
Mi commuove questa
lettura in giorni in cui le notizie che si accumulano, ormai da troppo tempo,
sulla nostra vita politica, economica e sociale, inducono più che alla fiducia
allo sgomento, se non alla disperazione di non riuscire a rivedere un po’ di
luce.
E mi tornano in mente
due frasi importanti. Una di Corrado Alvaro: “La
disperazione peggiore di una società è il dubbio
che vivere onestamente sia inutile”. E
l’altra di Paolo Borsellino: “Palermo non mi piaceva, per questo ho
imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci
piace per poterlo cambiare. Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me”.
Del libro di Teti, ho scritto,
sempre su Zoom, in un articolo dedicato ai finalisti del premio Tropea:
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