martedì 11 dicembre 2012

La stella di Concetta



La stella di Natale, che per cinque anni, puntuale, aveva cominciato a illuminarsi di rosso all’inizio di dicembre, quasi vergognosa delle sue rade foglie verdi semi accartocciate sui rami nudi, si nascondeva rattrappita in fondo al cortile mentre la pioggia intristiva una festa dell’Immacolata che già non sapeva di dolce.
 
A quasi ottanta anni, per la prima volta donna Concetta avrebbe passato il Natale da sola. Non le era successo neppure dopo che, tre anni prima, era rimasta vedova. L’unica figlia, che abitava in cittadina del nord-est, scendeva a passare tutto il periodo delle vacanze scolastiche insieme al marito e alle due figlie che, anche crescendo, erano rimaste affezionate a quei giorni calabresi di inverno tiepido, passeggiate in bici lungo la strada del mare, cucina della nonna e giochi a carte con un gruppo di amici d’infanzia che aveva resistito agli anni, alle lontananze tra una vacanza estiva e una invernale, ai fidanzamenti e ai matrimoni.
 
Ma Teresa, quell’anno, doveva andare a trovare la suocera che stava troppo male per poter barattare, ancora una volta, Pasqua con Natale e Anna doveva partorire tra la Vigilia e Santo Stefano, ragion per cui Rita se ne sarebbe rimasta ad accudire la figlia, col magone di lasciare sola una madre vecchia in una casa troppo grande. Dove i ricordi tristi, tenuti a freno in compagnia, in solitudine potevano diventare fantasmi mortalmente avvolgenti come spire di polpi avvelenati.
 
Ogni 8 dicembre, tornata dalla Messa, Concetta tirava fuori il grande scatolone coi pastori, li scartocciava ad uno ad uno dai fogli di giornale che li proteggevano dalle rotture e li metteva su un tavolino a prendere aria in attesa che Anna s’inventasse, ogni anno, una diversa rappresentazione del presepe. E lo stesso faceva con gli addobbi dell’albero, ch’era da sempre compito di Teresa.
 
Poi prendeva un recipiente smaltato ch’era appartenuto a sua madre, ci versava il vino cotto e, dentro, tagliuzzati, i fichi secchi e si dedicava al lavoro più lungo della giornata. Si sedeva in un angolo da cui si vedeva bene l’Etna al di là del mare, un masso di granito sul tavolo, un martelletto e schiacciava le mandorle che, pulite e triturate, nei giorni successivi sarebbero andate a far compagnia ai fichi.
 
Sebbene la prossima nascita di un pronipote le desse un senso di caldo stupore – la meraviglia d’un regalo inatteso, mai aveva osato sperare in un tale traguardo – il vicino Natale solitario l'appesantiva d'una malinconia di lacrime rapprese che, pur sforzandosi, non riusciva a mettere fuori dalla porta.
Non le dava cuore né di mettersi davanti agli occhi un qualche simbolo di festa né tantomeno di preparare dolci che, non essendoci Teresa e Anna, non avrebbero trovato tazze di latte bollente in cui tuffarsi.
 
Neppure il tempo aiutava. Il mare anneriva, mugghiando, sotto nuvoloni spessi che avevano già ricoperto tutto il profilo siciliano e, d’un tratto, la grandine colmò i vasi delle piante da cucina, piegando l’ultimo basilico, la menta e il rosmarino. Qualche minuto e il cielo fu di nuovo azzurro e il sole tornò a dorare la neve dell’Etna in rivoli di luce che dalla montagna scendevano sul mare in scintillii di colori.
 
Concetta, ch’era rimasta ferma dietro il vetro, chiusa nei suoi pensieri, si riscosse. Non poteva certo gettare un’ombra di malaugurio sul bambino che stava per nascere. Anche se avrebbe avuto bisogno di un bel po’ di tempo per finirli, andò a prendere l’occorrente e iniziò a preparare i petrali.
 
 
 

 

 

 

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