domenica 9 dicembre 2012

Il mio presepe

 
 
La lavandaia, certo. Avevo già dieci anni e al mio paese si lavava ancora in una vasca comune ad un crocicchio di strade, insaponando i panni sul lavello ondulato di granito e lì si abbeveravano le mucche e l’asino di ritorno dal suo lavoro. (Da bambina, con l’asino, salivo in giardino con mia nonna; un pomeriggio d’estate, per gioco, uno mi afferrò dalla gonna nuova e mi fece un’altalena su e giù; piansi per la gonna “alla moderna” miseramente strappata, ma continuai ad amare gli asini).
 
E il pastore. Ma, in campagna, non ne ho mai visto uno addormentato a bocca aperta sotto qualche albero, piuttosto lo incontravo scendere la fiumara per portare tutto il gregge, i capri, le pecore madri dalla lana beigiolata, gli agnellini tenerelli, verso il mare. Borbottava, in dialetto, qualcosa come: “E’ dall’alluvione che non c’è una pioggia come si deve”.
 
E, poi, il contadino con il suo paniere di frutta e verdura in mano, con le mani callose e la giacca di fustagno liso. E la massaia con le sue galline, che conosce ad una ad una e parla a Rosina e a Bianchina con scontrosa tenerezza.
 
E l’arrotino, che somigliava a mastru don Giuvanninu, che forgiava le zappe e lavorò fino alla morte, fermandosi solo per una pesante influenza: “Non haiu putiri né mi lavuri né mi mangiu”. (non ho la forza né per lavorare né per mangiare).
 
E le botteghe di carni, salumi, formaggi, i ‘putii.
 
E il pozzo (che conoscevo bene) e il laghetto (non ne avevo idea, però non era dissimile per forma, se non per colore, dalle pozzanghere) fatto con un piccolo specchio e, in anni più recenti, con la carta d’argento, con le papere, le oche, i sassolini intorno.
 
E la faccia nera di uno dei Magi. Non c’era la televisione quand’ero proprio piccola e La capanna dello zio Tom l’avrei letta dopo alcuni anni: che ci fossero persone d’altro colore lo appresi nell’armonia del presepe.
 
E tanto muschio preso dalle armacere (muri di contenimento delle terrazze) del giardino. E qui mi devo fermare perché l’immagine si fa troppo dolente, di persone care che un tempo erano giovani e forti e non lo sono più.
 
Non ho mai saputo fare il presepe, mi limito a mettere i pastori a passeggio. E non saprei neanche costruirmi i pastori, con la creta o con la plastilina.
 
Eppure ne ho uno in mente, grande, in cui c’è posto non solo per i pastori della tradizione, ma per tante persone che nella vita, magari solo mentale, ho incontrato, per anni o solo per qualche ora, familiari, amici e gente che neppure mi conosce eppure amo.
 
Me li sento tutti dentro nello struggimento dell’anima, al suono delle ceramelle, nell’incanto d’una nascita speciale sotto il cielo stellato – ho sempre associato il Kant de “il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me” agli sfondi blu notte fitti di stelle dei presepi della mia infanzia – nella malinconia di un tramonto incantato che diventerà alba da estasi, ma intanto bisogna attraversare la notte.

Ho già, ultimamente scritto del presepe. Sarà la vecchiaia che porta ai ricordi. Sarà la consapevolezza che l’unico reale discrimine dell’età, se la salute regge, è che i giovani guardano al futuro come opportunità e i vecchi come pericolo: ma, forse, questo valeva di più prima, perché a trovare speranze nel futuro, oggi è difficile anche per i giovani. Sarà l’idea di sottofondo che uno dei nostri limiti, come calabresi, è quello di non aver mai accompagnato l’orgoglio di noi stessi con un’effettiva valorizzazione di quello che siamo stati e siamo o possiamo essere: un orgoglio amaro e risentito, insomma, non un orgoglio che ha in sé le proprie, tranquille, ragioni.
 
Il presepe è universale, integra in sé popoli e culture differenti (come universale è l’albero con le luci che, magari non in tanti lo sanno, ma ha anch’esso radici “religiose”, giacché deriva dal fatto che la Bibbia parla di alberi che danzano illuminati e felici alla vista di Dio). Ma qualunque autore sa che il massimo dell’universale si raggiunge nella rappresentazione del massimo del particolare.
 
Ecco: mi piacerebbe fare, oggi, all'Immacolata, secondo tradizione, un presepe del tutto “calabrese”. Ci metterei Telesio e Campanella, Ibico, Nosside, l’emigrato dell’Ottocento che parte per la lontana ‘Merica e quello del ‘950 che s’avvia verso Torino e Milano, e la nostra prima laureata…e… e… e…
E voi, chi ci mettereste?
 
 
 
Nella foto "le due calabresi" attribuite al Sanmartino

 

 

 

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