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Megghiu ‘nu sceccu vivu chi nu ‘profissuri mortu. Così al mio paese, quand’ero ragazzina. Ritenendo che i miei malesseri fossero frutto di troppo studio, anche il nostro medico di famiglia così mi prendeva bonariamente in giro. Non è che il detto mi piaccia, ma dubito che, a ribaltarlo, funzioni meglio.
C’è - insieme a più che legittime riserve, critiche, preoccupazioni, nonché giuste indicazioni di responsabilità di tutti i pubblici poteri - un di più di ingenuità e ancor più di ipocrisia (quante scuole napoletane erano davvero aperte e funzionanti tre giorni fa?) negli attacchi alla decisione di De Luca di passare dalla didattica in presenza alla didattica a distanza per due settimane.
Non è, certo, in
discussione la giusta rivendicazione di insegnanti, genitori e alunni della fondamentale
importanza della scuola per costruire il presente e il futuro di una società. Non
c’è persona dotata di buon senso che non la vorrebbe “aperta”. A me piacerebbe
aperta a tempo pieno, almeno dieci mesi (effettivi) l’anno, e con servizi resi
all’intera comunità. Ma, con un’epidemia in atto (chissà come in troppi avevano
dimenticato che la seconda ondata di spagnola fu tragica), con la debolezza
strutturale del nostro sistema complessivo (dalla sanità ai trasporti) –
debolezza del paese, particolarmente forte a Sud e ancora peggio a Napoli – si può seriamente ipotizzare che la scuola sia un’oasi-isola, eventualmente richiusa solo dopo tutto il
resto, come i capitani che affondano con la nave? Non coinvolge troppe persone e interagisce con troppe altre realtà perché ciò sia davvero, sempre, possibile?
Anche se il Tar annullasse la decisione di De Luca, la stessa scelta si potrebbe riproporre, con la pandemia in crescita, da qui a qualche settimana. In Campania e anche altrove.
Non sarebbe il caso, per chi è interessato al tema educazione, di fronte ad una situazione drammatica, che non sappiamo quanto durerà, e dove ci porterà – oltre a ribadire il refrain “scuole aperte”, pure giustissimo – accelerare sul tema: che cosa e come fare, hic et hunc?
Ci sono e/o ci saranno ancora ragazzini a casa (naturalmente, in case, in famiglie, in quartieri ben diversi), per tempi più o meno lunghi, e alcuni di questi (tanti, troppi nel napoletano) saranno più a rischio povertà di altri: povertà educativa che, nel tempo, può diventare anche povertà materiale (magari: più povertà materiale) e/o inserimento in gruppi illegali (magari: maggiore inserimento).
Ci sono problemi per tutti. Anche per quelli che vivono in case comode, con genitori attenti, strumenti tecnologici adeguati. È una prova pesante per una generazione cresciuta (come tutte quelle nate dopo il 68) da adulti spesso incapaci di gestirsi come tali, che si trova ad affrontare limitazioni cui non era minimamente abituata. Per assurdo, è stato probabilmente più facile ritrovarsi sul Carso poco più di cento anni fa, in un tempo in cui, consapevoli di vivere “in una valle di lacrime”, tutti avevano interiorizzato i concetti di “dovere” e “sacrificio”, piuttosto che rinunciare, oggi, a diritti consolidati, con la vita notturna tirata il più tardi possibile.
Ma ci sono ragazzi più ai margini, che hanno anche altre, e pesanti, difficoltà. Come li si raggiunge questi ragazzi che già la scuola aperta rischiava di perdere e che, senza scuola aperta, nel rischio si inoltreranno ancora di più? C’era un bel detto, che si potrebbe/dovrebbe ripristinare: Se Maometto non va alla montagna, la montagna va da Maometto. Quale avventura conoscitiva bisogna loro proporre perché si coinvolgano in un processo di crescita più difficile che andare a scuola qualche ora al giorno? Come costruire, con loro, relazioni significative mentre, intorno, si allarga uno spazio vuoto: di persone, di senso, di scambio d’affetti e di pensieri? Non sarebbe il momento di capire che l’educazione è un compito della scuola, ma non solo della scuola? Che la scuola ha una responsabilità enorme, ma che ci vuole una rete di soggetti, famiglie (prioritariamente), e parrocchie comprese (parrocchie che, insieme alle scuole, in certi territori sono gli unici segni di far parte di una collettività). Che, in questa rete ci deve entrare tutto quello che di meglio offre il territorio, ma non solo? Che bisogna coinvolgere molte professionalità, dagli psicologi agli artisti (disegnatori, gente di teatro, persone che lavorano con le parole). Che non si possono tirare indietro le tv, quella di stato, certo, ma anche quelle private. Che va chiesto un contributo educativo ai social (che possono essere veleno asfissiante o miniera di pietre preziose). E così continuando.
Quando tutto o quasi manca - e certo sono in tanti, insegnanti ed educatori ad ogni titolo a provarci - talvolta diventa più semplice trasformare la necessità in virtù.
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