martedì 20 ottobre 2020

Microstorie: Le favole del secondo lockdown

 


Da quando ho cominciato a scrivere favole, le ore mi passano così veloci che mi dimentico quasi di mangiare. Quando alzo gli occhi e vedo che è già l’una oppure le otto, metto sul fuoco qualcosa di svelto e ricomincio a scrivere.

La solitudine non mi ha mai spaventato. Non mi sono mai sposata, non ho mai avuto fidanzati. L’unico che mi ha fatto battere il cuore è morto prima che potessimo oltrepassare qualche scambio di idee sui gradini della facoltà di economia.

Quando è scattato il primo lockdown, mi sono organizzata: in piedi entro le sei e mezzo, in maniera da seguire la messa del papa alle sette, due ore di lettura, una di telefonate alle amiche, una di riordino della casa, preparazione di un parco pranzo e di una parca cena – ma con cose buone, confortanti – ancora due ore di lettura, poi verso le cinque, una passeggiata in corridoio fino a completare i diecimila passi che piacciono allo smartphone, un po’ di puntate di qualche serie prima di andare a dormire. Mi sono fatta portare la spesa a casa, ho versato ancora più soldi ad Amazon, ho aggiunto all’abbonamento Sky quello di Netflix, ho recuperato tutta la possibile tv del passato su Raiplay, ho scandagliato You Tube. Nell’insieme, ho retto bene.

In estate, sono stata in vacanza da Angela. Abbiamo lavorato insieme in un’azienda privata e insieme, tre anni fa, siamo andate in pensione. Angela ha una casa, grande, a due piani, in collina, con un bel giardino pieno di verde. Sua figlia è stata al mare per quindici giorni e c’era posto per me. Al ritorno, mentre tutti sembravano pronti a riprendere la vita del passato – mai ho avuto tanti inviti a pranzi, cene e the, anche da chi non sentivo da tempo – ho cominciato ad avvertire un’inquietudine in più, come un tarlo che consuma.

Ci ho messo un po’ a capire che cosa mi mancava. Anzi: che cosa mi manca. Un nipote. No, non un figlio, proprio un nipote. Un bambino, piccolo, che porti con sé qualcosa di me nel futuro. Il pensiero di un bambino ha cominciato ad ossessionarmi e mi sono inoltrata in un’angoscia che, così, non avevo mai provato. Il vuoto, il nulla. Come se la mia vita non avesse un senso: né quella passata né quella futura. Ho cominciato a parlare con un bambino invisibile a cui ho cominciato a dare i tratti, da giovane, di mio zio Raffaele, l’uomo più caro della famiglia, morto, anziano, tre anni fa. Quando ho messo su carta quelle parole, mi sono accorta che stavo raccontando una favola. E ho continuato. Per adesso, ne ho scritte tre. Il mio obiettivo è di arrivare a cinque, poi a dieci, a venti, poi a trenta, quaranta, cinquanta. Non avrei mai pensato che mi soccorresse tanta fantasia. Sarà che si è risvegliata, dentro di me, la bambina che sono stata: che ha bisogno di conforto, d’una carezza.

La speranza è riuscire a scrivere favole per tutto il lockdown numero due, prossimo venturo. Se non infilo la testa dentro qualcosa che sa davvero di vita, stavolta, non ce la farò.

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