Il campanello suonò alle sette in punto. Anna arrivava
sempre puntuale. In verità, non si chiamava Anna, ma il suo nome, donna Tuzza,
non sapeva pronunciarlo e l’aveva ribattezzata così, ché dopo Maria, il nome
più bello d’una donna era quello della madre della Madonna. Erano
ormai cinque anni che Anna faceva i servizi a casa di donna Tuzza. Aveva
cominciato con tre ore e ora lavorava tre
pomeriggi la settimana.
La casa, a metà salita del vallone, era grande, con un piano
terra e un primo piano ampi, e, intorno, un piccolo orto, una casupola usata
come grande ripostiglio e un recinto per le galline. Nel cortile, un albero di
limone e uno d’arance facevano ombra e profumo su un tavolino di smalto bianco
con intorno tre sedie vecchiotte. Dal terrazzino si vedeva il mare, sovrastato
dall’Etna. Donna Tuzza s’era occupata sempre da sola della famiglia, della casa
e dell’orto. Padre e madre erano contadini e, quando s’era sposata con un
impiegato del comune (uno che lavorava, ci teneva a ripeterlo, mai un giorno di
malattia, mai un’assenza) non aveva dimenticato le sue origini. Lattuga e
pomodori, melenzane e peperoni li aveva sempre portati a tavola dal suo orto,
“questo sì che è a chilometro zero” ripeteva soddisfatta. Cucinava meglio di
uno chef – era capace di fare un pranzo da leccarsi i baffi con ingredienti
semplici e poveri – cuciva e ricamava di fino. Economa, aveva amministrato con
sapienza lo stipendio del marito, procurando un discreto benessere alla
famiglia.
Dopo la morte del marito e il trasferimento dei figli – Lauretta aveva
trovato a Piombino prima un posto da insegnante e poi anche un marito, Gianni
stava a Roma, ma in via vai continuo con l’estero (nomi dei suoceri, lei li
avrebbe chiamati Maria e Giuseppe) – aveva continuato la sua vita occupata. Nei
lunghi pomeriggi solitari, s’era data ancora di più al ricamo per tre nipoti
(un maschio e due ragazze), ché il corredo non si usa più, ma avere asciugamani
e lenzuola ben lavorate è sempre una bella cosa. Le galline erano diventate
le sue confidenti: a loro raccontava i suoi pensieri più segreti; le uova le
davano conforto perché, chiunque venisse a portarle qualcosa, aveva sempre come
ricambiare. S’era occupata sempre di tutto, donna Tuzza, e aveva resistito a qualsiasi
invito dei figli a prendersi un aiuto, finché i malanni s’erano accumulati ai
malanni e s’era riconosciuta vecchia: di corpo, perché di mente, nonostante
qualche piccola caduta di memoria, manteneva la sua testa.
Abhilasha era arrivata in paese da una decina d’anni. Aveva due figli,
che andavano a scuola e tutti consideravano bravi ragazzi e un marito che
nessuno vedeva mai perché lavorava in un paese della jonica, usciva troppo presto
e tornava troppo tardi. Erano finiti in quella conca dello Stretto richiamati
da parenti, arrivati anni prima; gente tranquilla, niente da dire, gli uomini gran lavoratori, le donne, di festa, vestivano di lungo con
colori vivaci. Il marito non voleva che Abhilasha lavorasse; lei, se appena le fosse
stato possibile, avrebbe scelto un altro lavoro, ma, poiché altro non c’era e
in casa i soldi servivano, s’era offerta come donna delle pulizie.
Donna Tuzza l’aveva ribattezzata Anna – e ormai Anna era diventata per tutti
– e le voleva bene. Anna era dolce, puntuale e rispettosa: non
spostava una sedia senza chiedere il permesso e si adattava a qualsiasi cosa.
Non solo lavare bagni e pavimenti, ma anche pulire il recinto delle galline,
curare l’orto, innaffiare le piante e, all’occorrenza, fare un po’ di spesa al
supermercato più vicino.
“Che devo fare oggi?” Anna era arrivata con passo lento e braccia
ciondolanti, il volto un po’ stanco.
“Prima di tutto un caffè. Ci sediamo cinque minuti e ce lo beviamo in
pace.”
Anna sorrise, gli occhi luminosi, la pelle olivastra che si faceva di
seta lucente. Donna Tuzza le piaceva, era una donna forte, che non si lamentava
né di solitudine né di malanni. Le ricordava la madre che neppure quell’anno
avrebbe rivisto: non c’erano abbastanza soldi per una vacanza in India. Non è
che parlassero molto – Anna continuava a non parlare molto in italiano e il
dialetto poco lo capiva – ma quel poco che si dicevano la faceva sentire di
casa. Parlavano di figli, di cucina e di Dio. Donna Tuzza era religiosa assai e
almeno tre messe al giorno le seguiva in tv e Anna aveva una religione che lei non
capiva, ma le faceva piacere che la donna da cui dipendeva molto della sua
quotidianità pregasse e andasse anche lei in una sua chiesa.
“Comincia col mettere a posto la culla – disse donna Tuzza – poi vediamo
se ci resta tempo.” Sarebbe stata un’estate diversa. Per l’estate, sarebbero arrivati
la figlia e il genero, come sempre. Ma la novità che le faceva battere il cuore è
che sarebbe arrivava la nipote, Graziella, con la bambina di tre mesi. A donna Tuzza,
che l’aveva vista solo in foto, pareva un miracolo l’essere diventata bisnonna
e un miracolo doppio che la nipote avesse deciso di portarla lì per una ventina di giorni,
battesimo compreso. Sarebbero arrivati anche i genitori di Fabio, in casa non
c’era modo di ospitarli, sarebbero andati nell’agriturismo dove un'amica di Anna lavorava
tutte le mattine.
“Signora, quale metto?”. Anna teneva in mano tre lenzuolini che erano
stati di Lauretta e poi di Graziella. Donna Tuzza scelse quello col bordino a paperelle. Le venne in mente che, mentre lo ricamava, suo
padre le raccontava dei tempi brutti in cui era stato migrante in America.
“Sono
fortunata – pensò – chissà se la madre di Anna rivedrà mai i suoi nipoti.”
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