lunedì 30 luglio 2018

Microstorie: Anna, che non si chiamava Anna






Il campanello suonò alle sette in punto. Anna arrivava sempre puntuale. In verità, non si chiamava Anna, ma il suo nome, donna Tuzza, non sapeva pronunciarlo e l’aveva ribattezzata così, ché dopo Maria, il nome più bello d’una donna era quello della madre della Madonna. Erano ormai cinque anni che Anna faceva i servizi a casa di donna Tuzza. Aveva cominciato con tre ore e ora lavorava tre pomeriggi la settimana.

La casa, a metà salita del vallone, era grande, con un piano terra e un primo piano ampi, e, intorno, un piccolo orto, una casupola usata come grande ripostiglio e un recinto per le galline. Nel cortile, un albero di limone e uno d’arance facevano ombra e profumo su un tavolino di smalto bianco con intorno tre sedie vecchiotte. Dal terrazzino si vedeva il mare, sovrastato dall’Etna. Donna Tuzza s’era occupata sempre da sola della famiglia, della casa e dell’orto. Padre e madre erano contadini e, quando s’era sposata con un impiegato del comune (uno che lavorava, ci teneva a ripeterlo, mai un giorno di malattia, mai un’assenza) non aveva dimenticato le sue origini. Lattuga e pomodori, melenzane e peperoni li aveva sempre portati a tavola dal suo orto, “questo sì che è a chilometro zero” ripeteva soddisfatta. Cucinava meglio di uno chef – era capace di fare un pranzo da leccarsi i baffi con ingredienti semplici e poveri – cuciva e ricamava di fino. Economa, aveva amministrato con sapienza lo stipendio del marito, procurando un discreto benessere alla famiglia.

Dopo la morte del marito e il trasferimento dei figli – Lauretta aveva trovato a Piombino prima un posto da insegnante e poi anche un marito, Gianni stava a Roma, ma in via vai continuo con l’estero (nomi dei suoceri, lei li avrebbe chiamati Maria e Giuseppe) aveva continuato la sua vita occupata. Nei lunghi pomeriggi solitari, s’era data ancora di più al ricamo per tre nipoti (un maschio e due ragazze), ché il corredo non si usa più, ma avere asciugamani e lenzuola ben lavorate è sempre una bella cosa. Le galline erano diventate le sue confidenti: a loro raccontava i suoi pensieri più segreti; le uova le davano conforto perché, chiunque venisse a portarle qualcosa, aveva sempre come ricambiare. S’era occupata sempre di tutto, donna Tuzza, e aveva resistito a qualsiasi invito dei figli a prendersi un aiuto, finché i malanni s’erano accumulati ai malanni e s’era riconosciuta vecchia: di corpo, perché di mente, nonostante qualche piccola caduta di memoria, manteneva la sua testa.

Abhilasha era arrivata in paese da una decina d’anni. Aveva due figli, che andavano a scuola e tutti consideravano bravi ragazzi e un marito che nessuno vedeva mai perché lavorava in un paese della jonica, usciva troppo presto e tornava troppo tardi. Erano finiti in quella conca dello Stretto richiamati da parenti, arrivati anni prima; gente tranquilla, niente da dire, gli uomini gran lavoratori, le donne, di festa, vestivano di lungo con colori vivaci. Il marito non voleva che Abhilasha lavorasse; lei, se appena le fosse stato possibile, avrebbe scelto un altro lavoro, ma, poiché altro non c’era e in casa i soldi servivano, s’era offerta come donna delle pulizie.

Donna Tuzza l’aveva ribattezzata Anna – e ormai Anna era diventata per tutti – e le voleva bene. Anna era dolce, puntuale e rispettosa: non spostava una sedia senza chiedere il permesso e si adattava a qualsiasi cosa. Non solo lavare bagni e pavimenti, ma anche pulire il recinto delle galline, curare l’orto, innaffiare le piante e, all’occorrenza, fare un po’ di spesa al supermercato più vicino.

“Che devo fare oggi?” Anna era arrivata con passo lento e braccia ciondolanti, il volto un po’ stanco.
“Prima di tutto un caffè. Ci sediamo cinque minuti e ce lo beviamo in pace.
Anna sorrise, gli occhi luminosi, la pelle olivastra che si faceva di seta lucente. Donna Tuzza le piaceva, era una donna forte, che non si lamentava né di solitudine né di malanni. Le ricordava la madre che neppure quell’anno avrebbe rivisto: non c’erano abbastanza soldi per una vacanza in India. Non è che parlassero molto – Anna continuava a non parlare molto in italiano e il dialetto poco lo capiva – ma quel poco che si dicevano la faceva sentire di casa. Parlavano di figli, di cucina e di Dio. Donna Tuzza era religiosa assai e almeno tre messe al giorno le seguiva in tv e Anna aveva una religione che lei non capiva, ma le faceva piacere che la donna da cui dipendeva molto della sua quotidianità pregasse e andasse anche lei in una sua chiesa.

“Comincia col mettere a posto la culla – disse donna Tuzza – poi vediamo se ci resta tempo.” Sarebbe stata un’estate diversa. Per l’estate, sarebbero arrivati la figlia e il genero, come sempre. Ma la novità che le faceva battere il cuore è che sarebbe arrivava la nipote, Graziella, con la bambina di tre mesi. A donna Tuzza, che l’aveva vista solo in foto, pareva un miracolo l’essere diventata bisnonna e un miracolo doppio che la nipote avesse deciso di portarla lì per una ventina di giorni, battesimo compreso. Sarebbero arrivati anche i genitori di Fabio, in casa non c’era modo di ospitarli, sarebbero andati nell’agriturismo dove un'amica di Anna lavorava tutte le mattine.

“Signora, quale metto?”. Anna teneva in mano tre lenzuolini che erano stati di Lauretta e poi di Graziella. Donna Tuzza scelse quello col bordino a paperelle. Le venne in mente che, mentre lo ricamava, suo padre le raccontava dei tempi brutti in cui era stato migrante in America. 

“Sono fortunata – pensò – chissà se la madre di Anna rivedrà mai i suoi nipoti.”

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