venerdì 27 luglio 2018

Ragù di capra di Gianfrancesco Turano





«Toccò terra con uno scricchiolio di sabbia contro il fondo del canotto. Strinse il nodo della cravatta chiudendo l’uscita alla colonna di calore che soffiava fra la camicia bagnata e i peli del petto. Indossò la giacca, un lino avana molto estivo, e scese in acqua badando a non bagnare i lembi della camicia e le mutande. Il mare era così gelido che ebbe un principio di crampo al polpaccio. Sollevò il piede destro e spinse avanti il tallone per distendere il muscolo. Lasciando a bordo le due valige, tirò in secco il gommone per la maniglia di prua. Il bagnasciuga era di ghiaia e sassi levigati. La sabbia incominciava più oltre, verso le barche e il margine nero che aveva visto dal mare.»

Per rimediare ai suoi debiti e potersi dedicarsi a una nuova avventura economica in Transilvania, Stefano Airaghi, rampante imprenditore milanese, finge l’affondamento del suo yacht, e, in attesa dei soldi dell’assicurazione, grazie all’appoggio del suo socio in affari, nipote di un boss locale, cerca rifugio in un paesino dello Jonio calabrese. 

«Il paese era brutto. Insisteva nella bruttezza con intenzione, al termine di un lavoro svolto per decenni dagli abitanti concordi. Se la natura perforata dallo stradone fra i giallo-grigi dei muri non fosse stata così bella, il visitatore avrebbe pensato al caso, alla povertà. Invece, le tracce che macchiavano la bruttezza erano proprio negli edifici più vecchi e modesti, in qualche rudere colonico o in una casa di pescatori semidisfatta. La determinazione al brutto era stata un atto di pura volontà, in odio a quelle cose che erano di tutti, quindi di nessuno, quindi meritevoli del rispetto che si deve alle puttane. Una natura bella era solo più colpevole.»

Con la nuova identità di «Damiani Sergio, quarantadue anni, titolare di un salone del mobile, separato, due figli, in viaggio d’affari per vagliare progetti imprenditoriali al Sud», Airaghi entra in contatto con un gruppo di giovani nullafacenti e sbandati, di cui prova a fare il capo, fino a costituire una sua ‘ndrina con l’obiettivo di recuperare un tesoro (casse e casse di armi) nascosto a mare: «Il Milanese assumeva la qualifica di capo del clan con il nome di Milanese. Mariano ‘u Pacciu era sottocapo anziano. Rocco Polo Nord sottocapo giovane. Ciccio Naso Forato era addetto alla sicurezza del capo e alle sue necessità pratiche. Toni prepagato si sarebbe occupato della cassa e della logistica, che nessuno sapeva che cazzo era ma c’era in ogni azienda seria. Toni avrebbe inoltre cercato un accesso a Internet. Airaghi avrebbe poi spiegato perché o forse no: il capo non era tenuto a fornire chiarificazioni.»

Molto bene ha fatto Città del Sole a ripubblicare Ragù di capra di Gianfrancesco Turano, già edito da Flaccovio nel 2005. Un romanzo tuttora innovativo (sa di giallo va ben al di là di un genere), che affrontata il tema ‘ndrangheta da una prospettiva originale, intrecciando in una trama coinvolgente i guasti della Milano da bere con quelli della modernità senza sviluppo della Calabria.

Qui non c’è quello che oggi viene chiamato il contagio (ovvero la diffusione della ‘ndrangheta, virus calabrese, in un Nord vergine e puro), ma è un rappresentante della borghesia milanese a cercare il supporto della ‘ndrangheta. Airaghi, strano Ulisse in una ancora più strana terra dei Feaci, guarda tutti con la sufficienza di chi si considera più furbo, ma il suo stesso attivismo lo metterà fuori gioco.
Ragù di capra è un testo divertente e forte, serio come un saggio e graffiante come un racconto sotteso d’ironia. Bella la lingua, asciutta, veloce, illuminata da un uso misurato e preciso del dialetto (trascritto come si parla), che dà sapidità ai dialoghi. Sostiene uno dei tanti personaggi che animano la storia che è inutile spiegare la bellezza della Calabria. «Per chi ci era nato era superfluo. Per chi non ci era nato diventava retorica. I due mondi non potevano comunicare. Bene così. Chi non parla non conta fesserie. Se si parlava, bisognava dire i fatti.» 

Raccontando i fatti –dalle case «gettate in grumi» a lato della 106 alla dispersione dei valori più umani della società agricolo-pastorale, dalla volgarità di giovinastri senza arte né parte al sapore paradisiaco di una cipolla ripiena – Turano consente uno sguardo nuovo sulla nostra terra sia ai calabresi che a chi calabrese non è. Guardando i suoi mali (mali cui non è esente il paese intero), ne fa respirare la bellezza: «Giugno era il verde. Eruttato dall’Aspromonte fino alla riva del mare, occupava tutto con tante sfumature quanti sono i colori insieme. Dopo quei primi giorni del mese avrebbe sceso la scala opposta, propagandosi nel giallo della sua morte man mano che la montagna inaridiva e il residuo delle fiumare si salmistrava sparendo in pochi giorni sotto il sole maturo.»

 Pubblicato su Zoomsud: 



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