«Toccò
terra con uno scricchiolio di sabbia contro il fondo del canotto. Strinse il
nodo della cravatta chiudendo l’uscita alla colonna di calore che soffiava fra
la camicia bagnata e i peli del petto. Indossò la giacca, un lino avana molto
estivo, e scese in acqua badando a non bagnare i lembi della camicia e le
mutande. Il mare era così gelido che ebbe un principio di crampo al polpaccio.
Sollevò il piede destro e spinse avanti il tallone per distendere il muscolo. Lasciando
a bordo le due valige, tirò in secco il gommone per la maniglia di prua. Il
bagnasciuga era di ghiaia e sassi levigati. La sabbia incominciava più oltre,
verso le barche e il margine nero che aveva visto dal mare.»
Per rimediare ai suoi debiti e potersi dedicarsi
a una nuova avventura economica in Transilvania, Stefano Airaghi, rampante
imprenditore milanese, finge l’affondamento del suo yacht, e, in attesa dei
soldi dell’assicurazione, grazie all’appoggio del suo socio in affari, nipote
di un boss locale, cerca rifugio in un paesino dello Jonio calabrese.
«Il paese era brutto. Insisteva
nella bruttezza con intenzione, al termine di un lavoro svolto per decenni
dagli abitanti concordi. Se la natura perforata dallo stradone fra i
giallo-grigi dei muri non fosse stata così bella, il visitatore avrebbe pensato
al caso, alla povertà. Invece, le tracce che macchiavano la bruttezza erano
proprio negli edifici più vecchi e modesti, in qualche rudere colonico o in una
casa di pescatori semidisfatta. La determinazione al brutto era stata un atto di
pura volontà, in odio a quelle cose che erano di tutti, quindi di nessuno,
quindi meritevoli del rispetto che si deve alle puttane. Una natura bella era
solo più colpevole.»
Con la nuova identità di «Damiani
Sergio, quarantadue anni, titolare di un salone del mobile, separato, due
figli, in viaggio d’affari per vagliare progetti imprenditoriali al Sud»,
Airaghi entra in contatto con un gruppo di giovani nullafacenti e sbandati, di
cui prova a fare il capo, fino a costituire una sua ‘ndrina con l’obiettivo di
recuperare un tesoro (casse e casse di armi) nascosto a mare: «Il Milanese
assumeva la qualifica di capo del clan con il nome di Milanese. Mariano ‘u
Pacciu era sottocapo anziano. Rocco Polo Nord sottocapo giovane. Ciccio Naso
Forato era addetto alla sicurezza del capo e alle sue necessità pratiche. Toni
prepagato si sarebbe occupato della cassa e della logistica, che nessuno sapeva
che cazzo era ma c’era in ogni azienda seria. Toni avrebbe inoltre cercato un
accesso a Internet. Airaghi avrebbe poi spiegato perché o forse no: il capo non
era tenuto a fornire chiarificazioni.»
Molto bene ha fatto Città del Sole a ripubblicare Ragù di capra di Gianfrancesco Turano,
già edito da Flaccovio nel 2005. Un romanzo tuttora innovativo (sa di giallo va
ben al di là di un genere), che affrontata il tema ‘ndrangheta da una
prospettiva originale, intrecciando in una trama coinvolgente i guasti della
Milano da bere con quelli della modernità senza sviluppo della Calabria.
Qui non c’è quello che oggi viene chiamato il contagio (ovvero la diffusione della
‘ndrangheta, virus calabrese, in un Nord vergine e puro), ma è un
rappresentante della borghesia milanese a cercare il supporto della
‘ndrangheta. Airaghi, strano Ulisse in una ancora più strana terra dei Feaci,
guarda tutti con la sufficienza di chi si considera più furbo, ma il suo stesso
attivismo lo metterà fuori gioco.
Ragù di
capra è un testo divertente e forte, serio come un saggio e graffiante come
un racconto sotteso d’ironia. Bella la lingua, asciutta, veloce, illuminata da
un uso misurato e preciso del dialetto (trascritto come si parla), che dà
sapidità ai dialoghi. Sostiene uno dei tanti personaggi che animano la storia
che è inutile spiegare la bellezza della Calabria. «Per chi ci
era nato era superfluo. Per chi non ci era nato diventava retorica. I due mondi
non potevano comunicare. Bene così. Chi non parla non conta fesserie. Se si
parlava, bisognava dire i fatti.»
Raccontando i fatti –dalle case «gettate in
grumi» a lato della 106 alla dispersione dei valori più umani della società
agricolo-pastorale, dalla volgarità di giovinastri senza arte né parte al
sapore paradisiaco di una cipolla ripiena – Turano consente uno sguardo nuovo
sulla nostra terra sia ai calabresi che a chi calabrese non è. Guardando i suoi
mali (mali cui non è esente il paese intero), ne fa respirare la bellezza:
«Giugno era il verde. Eruttato dall’Aspromonte fino alla riva
del mare, occupava tutto con tante sfumature quanti sono i colori insieme. Dopo
quei primi giorni del mese avrebbe sceso la scala opposta, propagandosi nel
giallo della sua morte man mano che la montagna inaridiva e il residuo delle
fiumare si salmistrava sparendo in pochi giorni sotto il sole maturo.»
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