giovedì 5 luglio 2018

Microstorie: Apprendista contadino






Un bustone di zucchine. Tre melanzane, due peperoni. Un cesto di fiori di zucca. Due pugni di taccole, tre di fagiolini tondi. Le insalate e due pomodori, i primi, ma sono pronti ad esplodere tutti: i san Marzano, i cuori di bue, i tigrati. Metto in macchina la raccolta di oggi come se ci mettessi dentro lo spicchio di cielo col sole splendente.

Ho sessantacinque anni e sono apprendista contadino da cinque. Nella vita di prima, facevo l’ingegnere in un’industria meccanica: il lavoro mi piaceva, ho fatto una carriera più che dignitosa, ho avuto tante soddisfazioni. 

Me ne sono andato in pensione prima del tempo per curare mia moglie. Proprio il giorno che avevo un appuntamento per vendere questa proprietà di famiglia che da almeno vent’anni nessuno coltivava, arrivò il verdetto: Eva non aveva più molto da vivere. L’appuntamento, rinviato più volte, saltò e, quando mi sono ritrovato solo – ho un figlio che lavora in America e una che sta a Bruxelles – m’è venuto, un giorno, il ghiribizzo di venirla a vedere questa terra, a cinquanta chilometri da casa mia.

Ci sono arrivato che il cielo minacciava pioggia e tutto pareva rivestito di un grigio irrimediabile. La prima idea è stata di scapparmene, ma dopo appena qualche minuto mi si è sciolto qualcosa dentro lo stomaco. M’è scesa addosso una commozione aspra e dolce, come se tutte le lacrime, quelle che avevo pianto e quelle che m’erano rimaste congelate in petto, fossero diventate una carezza che mi abbracciava. Ero dentro un sentimento, non ero più solo.

Feci arare il terreno, misi a posto la vecchia casetta degli attrezzi, e andai a lezione da alcuni contadini: ne sono rimasti pochi, e anziani, nel paese dei miei nonni sempre meno abitato.

Cominciai trapiantando vasetti di rosmarino e menta, prezzemolo e maggiorana. Poi, ho seguito le stagioni e ho trovato la pace persa e un equilibrio che, così, non avevo mai vissuto.

Zappare, piantare, innaffiare, raccogliere mi ha riempito i giorni. Qualche amico dice: Ma chi te la fa fare? Eppure, alzarsi presto, guidare fino a qui, stare ore da solo, sudare, raccogliere frutti che sono troppi per me (ho imparato a congelare, ma molto lo regalo) mi fa sentire vivo.

Essere con la mente dentro il ciclo delle stagioni, seguire la semina, il fiorire, maturare, seccare delle piante continuamente rammenda le mie ferite, ritesse il senso della vita. 

Nonostante la morte, nonostante ogni morte, la vita serve la vita. Questo mio essere un piccolo, umile servitore della vita è la mia guarigione quotidiana.

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