Un bustone di
zucchine. Tre melanzane, due peperoni. Un cesto di fiori di zucca. Due pugni di
taccole, tre di fagiolini tondi. Le insalate e due pomodori, i primi, ma sono
pronti ad esplodere tutti: i san Marzano, i cuori di bue, i tigrati. Metto in
macchina la raccolta di oggi come se ci mettessi dentro lo spicchio di cielo
col sole splendente.
Ho sessantacinque
anni e sono apprendista contadino da cinque. Nella vita di prima, facevo
l’ingegnere in un’industria meccanica: il lavoro mi piaceva, ho fatto una
carriera più che dignitosa, ho avuto tante soddisfazioni.
Me ne sono andato
in pensione prima del tempo per curare mia moglie. Proprio il giorno che avevo
un appuntamento per vendere questa proprietà di famiglia che da almeno
vent’anni nessuno coltivava, arrivò il verdetto: Eva non aveva più molto da vivere.
L’appuntamento, rinviato più volte, saltò e, quando mi sono ritrovato solo – ho
un figlio che lavora in America e una che sta a Bruxelles – m’è venuto, un
giorno, il ghiribizzo di venirla a vedere questa terra, a cinquanta chilometri
da casa mia.
Ci sono arrivato
che il cielo minacciava pioggia e tutto pareva rivestito di un grigio
irrimediabile. La prima idea è stata di scapparmene, ma dopo appena qualche
minuto mi si è sciolto qualcosa dentro lo stomaco. M’è scesa addosso una
commozione aspra e dolce, come se tutte le lacrime, quelle che avevo pianto e
quelle che m’erano rimaste congelate in petto, fossero diventate una carezza
che mi abbracciava. Ero dentro un sentimento, non ero più solo.
Feci arare il
terreno, misi a posto la vecchia casetta degli attrezzi, e andai a lezione da
alcuni contadini: ne sono rimasti pochi, e anziani, nel paese dei miei nonni sempre
meno abitato.
Cominciai
trapiantando vasetti di rosmarino e menta, prezzemolo e maggiorana. Poi, ho
seguito le stagioni e ho trovato la pace persa e un equilibrio che, così, non
avevo mai vissuto.
Zappare, piantare,
innaffiare, raccogliere mi ha riempito i giorni. Qualche amico dice: Ma chi te
la fa fare? Eppure, alzarsi presto, guidare fino a qui, stare ore da solo,
sudare, raccogliere frutti che sono troppi per me (ho imparato a congelare, ma
molto lo regalo) mi fa sentire vivo.
Essere con la
mente dentro il ciclo delle stagioni, seguire la semina, il fiorire, maturare,
seccare delle piante continuamente rammenda le mie ferite, ritesse il senso
della vita.
Nonostante la
morte, nonostante ogni morte, la vita serve la vita. Questo mio essere un
piccolo, umile servitore della vita è la mia guarigione quotidiana.
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