«Se mi riconosco una
patria, essa è piccola, fra due mari, una terra squallida, consolata da monti
selvosi, dove la lingua è scura e dolente, e non la intende che chi ci è nato.
Quando l’ho lasciata, nel ’62, sapevo che non ci sarei più vissuto, ma non ne
ho sofferto. Essa è là, il mio amore per lei la contempla da lontano, eterna e
intatta nel passare dei secoli che la sfiorano, indifferenti al suo bene e al
suo male: tanti ne ha visti, tanti ne vedrà, senza battere ciglio, il
privilegio dei disperati. Me ne sono bandito e non mi curo di morire in
Piemonte dove mi sarebbe piaciuto vivere da buon cittadino, e non è stato
possibile, un calabrese, qui, è uno straniero malvisto. In questa stanza sono
con me esiliati e rinchiusi gli oggetti che ho familiari, superstiti della mia
casa di Reggio o portatimi in dote da Marietta: essi convivono, ma, come i
nuovi italiani, non fraternizzano.»
Nel 1883, auto isolatosi
nella sua casa torinese, Domenico Lopresti – ormai settantenne, «un rudere, un
sasso che precipiterà nell’abisso e sarà ridotto in cenere e fango»,
profondamente amareggiato dal fallimento delle sue speranze politiche («L’idea
democratica e repubblicana, il mio antico vangelo, era stata sconfitta») e
pervaso da un acre nonsenso esistenziale – racconta a se stesso la propria vita
«per riconoscersi e non scendere nella tomba ignoto a se stesso come fu
nascendo.»
Gentiluomo calabrese,
patriota di convinzioni democratiche e repubblicane, Lopresti conosce, dopo la
fallita insurrezione del 1847, il carcere borbonico («Rischiare la morte e
soffrire un lungo carcere per l’Italia era stata la mia scelta, la mia
personale avventura»), condiviso con personalità di spicco, da Poerio a
Castromediano, di idee moderate e liberali: «Le sofferenze, gli spaventi delle
continue perquisizioni (si teneva per certo che ancora cospirassimo), gli
irragionevoli castighi del puntale e delle legnate, nequizie che affliggevano
anche chi non era punito, avevano creato fra noi una fraternità, un affetto
inconcepibili fuori dal carcere.»
Liberato dal carcere, «le
notizie dell’avanzata di Garibaldi in Sicilia, del suo imminente sbarco in
continente, spazzarono via la mia ignavia scoraggiata. L’azione vittoriosa dei
Mille, quella specie di miracolo, rimetteva in gioco le carte che erano parse
ormai senza valore, i democratici meridionali non avevano detto l’ultima parola
e con un po’ di fortuna e di abilità avrebbero potuto rovesciare la situazione
politica.»
Con un gruppetto di
ribelli, raggiunge la Calabria: da Morano a Castrovillari, a Cosenza («Da una
collinetta miravo la città adagiata fra il Busento e il Crati, col suo bel
ponte, i campanili, i palazzi: la mia piccola capitale, un centro di vita
civile. Lì era morta quella che per me era stata la vera rivoluzione
democratica del ‘48.»), a Taverna, a Catanzaro, a Tiriolo, a Chiaravalle, dove
rivede la vecchia madre e i parenti. Nonostante la simpatia nei confronti di
Garibaldi, è profondamente amareggiato della piega che la spedizione dei Mille
va via via prendendo.
Patrioti e popolo sono separati
dalla «mentalità privilegiata della mia classe, generosa a parole ma guardinga,
anzi scettica quando tratta con lo zappatore e il manovale. Il carcere non
basta a purgare certi peccati originali.» E la strategia vincente di Cavour gli
sembra segnare definitivamente, per l’Italia, una soluzione monarchico-liberale
che non darà giustizia e progresso al Sud: «Il presente era ambiguo, affidato a
uomini dalle idee piccine, tanto prevenuti nei confronti del mezzogiorno da
distruggere le nostre qualità e profittare dei nostri difetti.»
Convinto di poter
comunque fare qualcosa per il proprio paese, accetta la nomina a coordinatore
delle nuove amministrazioni comunali. In giro per le città e le campagne, «fui
così testimone della prima riviviscenza di quella milizia brigantesca che ora
si giustificava con la lealtà verso un sovrano giovane, tradito dai suoi
generali e scacciato illegalmente dal trono. Poco ci voleva a fare di un
bracciante senza lavoro e senza pane un fuorilegge.»
Promosso a capo delle
dogane delle «tre Calabrie», con ufficio prima a Cosenza e poi a Reggio, prova
a raggiungere Garibaldi non appena ha notizia che il generale è nuovamente
sbarcato dalle parti di Melito. Accusato di tradimento, viene salvato dalla
moglie del prefetto di Reggio, che gli dà modo di raggiungere Torino.
Ventuno anni dopo, roso
da un sentimento di fallimento politico e di un senso di inutilità
esistenziale, il protagonista di Noi
credevamo di Anna Banti (scrittrice poco citata, ma tra i maggiori del
nostro Novecento), pur sottoponendo al setaccio ogni momento e ogni azione
della vita, non riesce a rintracciare «l’errore in cui siamo caduti, l’inganno
che abbiamo tessuto senza volerlo.» L’Italia non è quella che aveva sognato e
per cui aveva patito carcere ed umiliazioni. E non resta che l’amaro della
sconfitta, per l’incapacità di declinare il plurale e i verbi se non al
passato: «… eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta
dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo…»
Ispirato al nonno paterno
dell’autrice, nata Lucia Lopresti (Anna Banti è il suo pseudonimo) e pubblicato
per la prima volta nel 1967, Noi credevamo è un romanzo di grande forza e dallo
stile asciutto e incisivo, che lascia al lettore molti spunti di riflessione.
Mario Martone vi ha tratto molti spunti per il suo omonimo film, in particolare
alcune scene della carcerazione a Montefusco, lo Spielberg borbonico.
Noi
credevamo è, sì, un libro sul Risorgimento tradito, ma, ancora
di più, sulla sconfitta di un nobile ideale incapace, quasi per ancestrale
fatalismo, di fare i conti con la realtà e la storia. Il velo di negatività con
cui Domenico Lopresti guarda a tutta la sua esperienza di vita, sebbene «da
circa mezzo secolo me ne sono divezzato e non ho mai coltivato la religione dei
ricordi infantili e di adolescente», lascia un piccolissimo spazio «a qualche
lampo di verde e di sole» della Calabria.
Pubblicato su Zoomsud:
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