1 Al tempo in cui l’estate era un vento che restava tutto l’anno nel
cuore, l’aria era una lenza piana, tondeggiante, quasi a metà di
un giardino a ripiani, in salita non ripida. Lì si sciatava il
grano. In un impasto di caldo, di giallo ondeggiante con punteggiature rosse di
papaveri, di cielo azzurro come il mare davanti allo sguardo e di aria limpida
eppure piena di pulviscolo. E, dentro, un senso di sospensione che la campagna
talora dà, quel suo essere, insieme, fuori e al centro del mondo, assoluta e
marginale, solitaria e colma di voci.
2 Seminare era una faccenda di uomini, ma alla mietitura erano presenti
tutti. E il giorno del pane non solo c’erano, ma tutti lavoravano, in
festa: chi impastando nella grande madia nello stanzone ‘sutta ‘o lastricu
(già: finire sotto il lastrico è rimanere fuori casa, sotto un terrazzo…), chi
componendo a cucchie sopra le pale di legno la pasta di pane
lievitata; chi accendendo dentro il forno, lì sotto il banano, la legna con la
giusta aggiunta di gusci schiacciati delle mandorle. (In qualche modo, c’era
lavoro e festa per tutti anche il giorno delle frittole: che era, però,
uno l’anno, mentre quello del pane si ripeteva una o più volte al mese). Anche
i bambini avevano un compito preciso. A me, ch’ero la più piccola, toccava
entrare nel forno a recuperare le briciole più lontane, croccanti sui mattoni
ancora bollenti.
3 La prima infornata era quella del pane fresco. Ovvero del pane
morbido utilizzabile nel giro di due-tre giorni e che, appena uscito dal
forno, veniva mangiato zuppo d’olio: un odore e un sapore che non hanno uguali.
Una buona parte delle cucchie, accucciate in sarviette di
lino di casa a trattenerne il calore, veniva rapidamente portata in
tutte le case vicine, da amici e parenti. Il pane, lo sentivano tutti, doveva
essere condiviso. D’altra parte, chi sono i compagni (cum-panis) se non
quelli che condividono il pane?
4 La seconda infornata – del pane fresco tagliato a metà e
rimesso al forno a diventare i biscotti (già: biscotto=bis-cotto, cotto
2 volte) – era quella conclusa dal mio entrare nel forno: un spazio piccolo e
caldo per un’avventura grande e luminosa.
5 Nei mesi scorsi ho letto alcuni ricordi sul pane fatto in casa in
alcuni libri, editi e in via di pubblicazione, di autori calabresi, ultimo, in
ordine di tempo, Il bacio del pane di Carmine Abate.
Come se, da più parti, riemergesse l’esigenza di dare parole ad
un’esperienza dai fortissimi rimandi evocativi, comune a molti che abbiano
superato il mezzo secolo. (Sulla scia di questi libri, ho cercato altri testi
sul pane; ce ne sono di molto belli; bellissimo Pane nostro di Predrag
Matvejevic)
6 Sarei propensa ad ipotizzare che il nostro mondo contadino – intendo
quello, piccolo e marginale, senza padroni esterni e senza neppure
padri-padroni interni – sia (stato), nonostante tutti i suoi limiti (a partire
dalla mancata alfabetizzazione e dal lavoro dei bambini), quello più vicino
alla naturalità del mondo. Particolarmente capace di cogliere l’essenza
delle metafore che la terra (l’umile terreno coltivato) offre e che il Vangelo
conferma. Il grano tenero del Giovedì santo, ‘a cuddura che
veniva data ai dodici che quella sera partecipavano alla Lavanda dei piedi
rimandava ad un’esperienza quotidiana che rendeva comune e assoluta la supplice
richiesta, come benedizione suprema della vita, del Pane nostro.
7 Non saprei mangiare senza pane; possibilmente senza buon pane (in giro, insieme a quello che sa di grano ce
n’è parecchio che non si distingue più che tanto dalla plastica). Amo il
pane fresco (tanto meglio quanto più è caldo) e il pan biscotto (anche
nella versione pani bugghiutu). Ma, forse, sono tra i non moltissimi che
lo mangiano a pranzo e cena, giacché per moltissimi (dal boom economico in poi)
quello che un tempo era il companatico (ciò che si accompagnava al pane,
tipo una fettina di formaggio in un paninone) è diventato il cibo senza pane (
o quasi).
8 Senza nostalgie del passato – dalla nostra storia possiamo solo
trarre, in positivo o in negativo, indicazioni che vanno misurate con l’oggi
nella prospettiva del domani – mi pongo delle domande su che cos’era il pane
per noi, su che cos’è oggi. E mi viene in mente che è un tempo immemorabile che
non sento nessuno dire di un altro/a: “E’ buono/a come il pane”.
Intorno, la storia era quella nuova degli anni
sessanta. Che, per certi aspetti, era arrivata anche da noi: avevamo la tv (in
bianco e nero) e il telefono (con le chiamate al centralino per le
interurbane). E, soprattutto, anche noi ragazzine del popolo cominciavamo ad
andare – in massa – alla scuola superiore.
Davanti agli occhi, sia guardando verso il mare che
verso le colline, la natura, che non aveva subito ancora le aggressioni e le ferite degli anni settanta e seguenti, sembrava
conservare un equilibrio perfetto: nuova ed antica.
Nelle albe stupefatte, nei tramonti incantati, non mi
era difficile immaginare di trovarmi non (solo) in quella che era stata Magna
Grecia, ma proprio nella Grecia antica: di sentirmi proprio lì, per esempio,
alla gara per il nome di quella che, ora, è la sua capitale.
Ascoltare l’oh di meraviglia degli dei quando
Poseidone faceva emergere dal mare un cavallo bianco – chi avrebbe mai potuto
fare un regalo più grande e più bello alla città? Vedere, poi, Atena scagliare
la sua lancia, far scaturire dal terreno un olivo e offrirne i frutti,
spiegando (com’era la voce di Atena?): ecco, il condimento dei cibi, l’unguento
per la pelle, la luce delle torce che illumineranno la notte. E l’oh farsi
infinito - intenso, intimo, stupefatto ( e la città non potrà che chiamarsi
Atene).
Fino alla mia generazione, nel nostro orizzonte
quotidiano c’era l’albero che faceva dire a Van Gogh:“ (…) io combatto
duramente per catturare questo olivo. E’ d’argento, un attimo dopo è più
azzurro, tutto insieme è verde, un pizzico di bronzo, contro il giallo, rosa,
blu, porpora, arancio e ocra.”
La sua sacralità si esaltava – si potrebbe dire si
intronizzava – nel momento in cui l’olio irrorava il pane caldo. Perché
sacro era il pane, eppure incompleto senza l’olio. L’olio, sacro, lo rendeva
divino.
Nella casa dei nonni, nello stesso stanzone sotto il
lastrico dove c’era la madia, c’erano anche le grandi giare dell’olio in terracotta e delle specie di
oliere di metallo per misurare olio – a quanto corrisponde un cafizu? Non
lo so, ma ricordo bene frasi come: ‘.. mi cercau ‘nu cafizu d’ogghiu (…mi ha
chiesto un cafizo d’olio). E, vicino alla stanza, c’era ‘u trappitu con
la grande macina di pietra (piccolissima, portai a chi la girava un’oliva, una
sola, e chiesi che me ne facessero l’olio).
Oggi, in quel pezzo di Calabria, i frantoi sono
scomparsi e gli ulivi sono pochissimi, giusto per un po’ di bocce di olive
salate e di olive schiacciate.
Dobbiamo discutere di chi siamo oggi, di che cos’è,
ora, la nostra economia. Dobbiamo capire che cosa possiamo fare di noi nel
futuro. Ma – a condizione di non farne un muro di lamento, ma un punto di forza
– è bene ritrovare la memoria di quello che siamo stati e che per decenni
abbiamo trascurato come se non avessimo niente di importante dire.
Come sta
capitando al pane, anche l’olio (gli ulivi) sta tornando prepotentemente nelle
pagine della nostra recente e migliore letteratura.
Mimmo
Gangemi canta gli ulivi e l’olio come nessun altro. Ne La signora di Ellis
Island non è solo l’epopea dell’emigrazione, ma anche quella della
coltivazione degli ulivi. E anche nel suo ultimo libro, Il patto del giudice:
“Appena nei pressi del paese, assecondò l’impulso di recarsi in un uliveto di
proprietà della famiglia. La malinconia s’era fatta pesante, fastidiosa ,
somigliava alla sofferenza (…) Tra gli ulivi stette meglio, trovò pace
passeggiando nei terrazzamenti. (…) appresso agli odori, fecero breccia i
ricordi, lui ragazzo dentro il frantoio degli zii, le macine che giravano
squittendo delle olive e dei noccioli, la pressa con le sportine caricate della
della pasta tra i dischi d’acciaio inseriti nel perno , l’olio che colava come
acqua da una fontana a zampilli”.
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