venerdì 13 settembre 2013

La Calabria pane e olio






1 Al tempo in cui l’estate era un vento che restava tutto l’anno nel cuore, l’aria era una lenza piana, tondeggiante, quasi a metà di un giardino a ripiani, in salita non ripida. Lì si sciatava il grano. In un impasto di caldo, di giallo ondeggiante con punteggiature rosse di papaveri, di cielo azzurro come il mare davanti allo sguardo e di aria limpida eppure piena di pulviscolo. E, dentro, un senso di sospensione che la campagna talora dà, quel suo essere, insieme, fuori e al centro del mondo, assoluta e marginale, solitaria e colma di voci.
 
2 Seminare era una faccenda di uomini, ma alla mietitura erano presenti tutti. E il giorno del pane non solo c’erano, ma tutti lavoravano, in festa: chi impastando nella grande madia nello stanzone ‘sutta ‘o lastricu (già: finire sotto il lastrico è rimanere fuori casa, sotto un terrazzo…), chi componendo a cucchie sopra le pale di legno la pasta di pane lievitata; chi accendendo dentro il forno, lì sotto il banano, la legna con la giusta aggiunta di gusci schiacciati delle mandorle. (In qualche modo, c’era lavoro e festa per tutti anche il giorno delle frittole: che era, però, uno l’anno, mentre quello del pane si ripeteva una o più volte al mese). Anche i bambini avevano un compito preciso. A me, ch’ero la più piccola, toccava entrare nel forno a recuperare le briciole più lontane, croccanti sui mattoni ancora bollenti.

3 La prima infornata era quella del pane fresco. Ovvero del pane morbido utilizzabile nel giro di due-tre giorni e che, appena uscito dal forno, veniva mangiato zuppo d’olio: un odore e un sapore che non hanno uguali. Una buona parte delle cucchie, accucciate in sarviette di lino di casa a trattenerne il calore, veniva rapidamente portata in tutte le case vicine, da amici e parenti. Il pane, lo sentivano tutti, doveva essere condiviso. D’altra parte, chi sono i compagni (cum-panis) se non quelli che condividono il pane?

4 La seconda infornata – del pane fresco tagliato a metà e rimesso al forno a diventare i biscotti (già: biscotto=bis-cotto, cotto 2 volte) – era quella conclusa dal mio entrare nel forno: un spazio piccolo e caldo per un’avventura grande e luminosa.

5 Nei mesi scorsi ho letto alcuni ricordi sul pane fatto in casa in alcuni libri, editi e in via di pubblicazione, di autori calabresi, ultimo, in ordine di tempo, Il bacio del pane di Carmine Abate. Come se, da più parti, riemergesse l’esigenza di dare parole ad un’esperienza dai fortissimi rimandi evocativi, comune a molti che abbiano superato il mezzo secolo. (Sulla scia di questi libri, ho cercato altri testi sul pane; ce ne sono di molto belli; bellissimo Pane nostro di Predrag Matvejevic)

6 Sarei propensa ad ipotizzare che il nostro mondo contadino – intendo quello, piccolo e marginale, senza padroni esterni e senza neppure padri-padroni interni – sia (stato), nonostante tutti i suoi limiti (a partire dalla mancata alfabetizzazione e dal lavoro dei bambini), quello più vicino alla naturalità del mondo. Particolarmente capace di cogliere l’essenza delle metafore che la terra (l’umile terreno coltivato) offre e che il Vangelo conferma. Il grano tenero del Giovedì santo, ‘a cuddura che veniva data ai dodici che quella sera partecipavano alla Lavanda dei piedi rimandava ad un’esperienza quotidiana che rendeva comune e assoluta la supplice richiesta, come benedizione suprema della vita, del Pane nostro.

7 Non saprei mangiare senza pane; possibilmente senza buon pane (in giro, insieme a quello che sa di grano ce n’è parecchio che non si distingue più che tanto dalla plastica). Amo il pane fresco (tanto meglio quanto più è caldo) e il pan biscotto (anche nella versione pani bugghiutu). Ma, forse, sono tra i non moltissimi che lo mangiano a pranzo e cena, giacché per moltissimi (dal boom economico in poi) quello che un tempo era il companatico (ciò che si accompagnava al pane, tipo una fettina di formaggio in un paninone) è diventato il cibo senza pane ( o quasi).

8 Senza nostalgie del passato – dalla nostra storia possiamo solo trarre, in positivo o in negativo, indicazioni che vanno misurate con l’oggi nella prospettiva del domani – mi pongo delle domande su che cos’era il pane per noi, su che cos’è oggi. E mi viene in mente che è un tempo immemorabile che non sento nessuno dire di un altro/a: “E’ buono/a come il pane”.





Intorno, la storia era quella nuova degli anni sessanta. Che, per certi aspetti, era arrivata anche da noi: avevamo la tv (in bianco e nero) e il telefono (con le chiamate al centralino per le interurbane). E, soprattutto, anche noi ragazzine del popolo cominciavamo ad andare – in massa – alla scuola superiore.


Davanti agli occhi, sia guardando verso il mare che verso le colline, la natura, che non aveva subito ancora le aggressioni e le ferite degli anni settanta e seguenti, sembrava conservare un equilibrio perfetto: nuova ed antica.
 
Nelle albe stupefatte, nei tramonti incantati, non mi era difficile immaginare di trovarmi non (solo) in quella che era stata Magna Grecia, ma proprio nella Grecia antica: di sentirmi proprio lì, per esempio, alla gara per il nome di quella che, ora, è la sua capitale.

Ascoltare l’oh di meraviglia degli dei quando Poseidone faceva emergere dal mare un cavallo bianco – chi avrebbe mai potuto fare un regalo più grande e più bello alla città? Vedere, poi, Atena scagliare la sua lancia, far scaturire dal terreno un olivo e offrirne i frutti, spiegando (com’era la voce di Atena?): ecco, il condimento dei cibi, l’unguento per la pelle, la luce delle torce che illumineranno la notte. E l’oh farsi infinito - intenso, intimo, stupefatto ( e la città non potrà che chiamarsi Atene).

Fino alla mia generazione, nel nostro orizzonte quotidiano c’era l’albero che faceva dire a Van Gogh:“ (…) io combatto duramente per catturare questo olivo. E’ d’argento, un attimo dopo è più azzurro, tutto insieme è verde, un pizzico di bronzo, contro il giallo, rosa, blu, porpora, arancio e ocra.”

La sua sacralità si esaltava – si potrebbe dire si intronizzava – nel momento in cui l’olio irrorava il pane caldo. Perché sacro era il pane, eppure incompleto senza l’olio. L’olio, sacro, lo rendeva divino.

Nella casa dei nonni, nello stesso stanzone sotto il lastrico dove c’era la madia, c’erano anche le grandi giare dell’olio in terracotta e delle specie di oliere di metallo per misurare olio – a quanto corrisponde un cafizu? Non lo so, ma ricordo bene frasi come: ‘.. mi cercau ‘nu cafizu d’ogghiu (…mi ha chiesto un cafizo d’olio). E, vicino alla stanza, c’era ‘u trappitu con la grande macina di pietra (piccolissima, portai a chi la girava un’oliva, una sola, e chiesi che me ne facessero l’olio).

Oggi, in quel pezzo di Calabria, i frantoi sono scomparsi e gli ulivi sono pochissimi, giusto per un po’ di bocce di olive salate e di olive schiacciate.

Dobbiamo discutere di chi siamo oggi, di che cos’è, ora, la nostra economia. Dobbiamo capire che cosa possiamo fare di noi nel futuro. Ma – a condizione di non farne un muro di lamento, ma un punto di forza – è bene ritrovare la memoria di quello che siamo stati e che per decenni abbiamo trascurato come se non avessimo niente di importante dire.

Come sta capitando al pane, anche l’olio (gli ulivi) sta tornando prepotentemente nelle pagine della nostra recente e migliore letteratura.

Mimmo Gangemi canta gli ulivi e l’olio come nessun altro. Ne La signora di Ellis Island non è solo l’epopea dell’emigrazione, ma anche quella della coltivazione degli ulivi. E anche nel suo ultimo libro, Il patto del giudice: “Appena nei pressi del paese, assecondò l’impulso di recarsi in un uliveto di proprietà della famiglia. La malinconia s’era fatta pesante, fastidiosa , somigliava alla sofferenza (…) Tra gli ulivi stette meglio, trovò pace passeggiando nei terrazzamenti. (…) appresso agli odori, fecero breccia i ricordi, lui ragazzo dentro il frantoio degli zii, le macine che giravano squittendo delle olive e dei noccioli, la pressa con le sportine caricate della della pasta tra i dischi d’acciaio inseriti nel perno , l’olio che colava come acqua da una fontana a zampilli”.







Nessun commento:

Posta un commento