mercoledì 5 giugno 2013

Robert Kennedy, il sogno incompiuto






Il 5 giugno del 1968 stavo ripetendo I Promessi Sposi, quando una radio, accesa da qualche parte della casa, diede quella notizia.

Qualche mese prima c’era stato l’assassinio di Martin Luther King; pochi mesi avrei vissuto anch’io il dolore per l’invasione di Praga e la fine della primavera di Dubcek.

Ma, il colpo di quel 5 giugno – so bene la stanza in cui stavo, la pagina su cui il libro era aperto, anche la luce sugli alberi al dì là della finestra – fu tale che l’emozione di quel momento non la ricordo, ma la rivivo ancora adesso esattamente come fu.

Il frangersi del sogno d’un’altra storia possibile.

Che infinite volte è già stato e di nuovo sarà atrocemente soffocato nel sangue.
Ed infinite volte rinascerà.




Dal discorso di Robert Kennedy sul Pil (18 marzo 68)

Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jpnes, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.  
Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.
Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.
Può dirci tutto sull'America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani.


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