Dialogo immaginario per una storia vera.
Lui: Quando sono nato, i primi di settembre dell’ultimo anno dell’Ottocento, mia madre si ammalò. Rimase per anni in ospedale, nel fondo di un letto. Morì che ero ancora piccolo, non me la ricordo. Avevo due fratelli e due sorelle.
Lei: Avevamo pochi giorni di differenza, sono nata lo stesso mese di settembre. Mia madre aveva fame e subito si alzò, salì su un albero e si saziò di more. Ero l’ultima di sette sorelle. Dopo di me nacque un maschio, ma se lo portò via il terremoto dell’otto.
Lui: Li sento ancora i cani che abbaiavano a morte, e dovunque un tanfo di morte infestava l’aria. I cadaveri li portavano via con le carriole.
Lei: I miei erano coloni, lavoravano la terra d’una gran signora che abitava in città. Eravamo poveri ma a noi sorelle non ci mancava niente. Mio padre ci teneva, alle più grandi comprò pure lo scialle per la messa.
Lui: Camminavo scalzo, avevo una sola camicia. Non mi ricordo d’essermi mai saziato, forse qualche vigilia di Natale e Capodanno; avevo sempre fame. Avevamo un pezzo di terra ma non era granché. A uno ad uno i miei fratelli più grandi se ne partirono per l’America.
Lei: Andai a scuola solo quindici giorni, mio padre diceva che le figlie femmine non dovevano imparare perché se no, da grandi, potevano scrivere di nascosto ai fidanzati. Aiutavo in campagna. Non avevo ancora dieci anni che cominciai a ricamare le lenzuola della mia dote.
Lui: Io sono andato a scuola per tre mesi. le parole che imparai le scrivevo e riscrivevo con un ramo sulla sabbia quando stavo in campagna a guardare le pecore. Mi chiamarono per la guerra che non avevo diciotto anni, tra i bersaglieri. Al fronte, una bomba mi scoppiò davanti. Il medico disse che m’ero ammalato di cuore, di mettermi nelle retrovie. Mi fecero fare il postino; portavo le lettere ai soldati feriti, al Fatebenefratelli, a Milano e così imparai a leggere.
Lei: Andai a servizio. Dal barone, la domenica, bollivano una gallina vecchia; i giorni feriali, fave e fagioli, come tutti, ma c’era pure il secondo, un peperone arrostito, due patate fritte.
Lui: Dopo la guerra, tornai a lavorare alla fornace. Impastavo mattoni dodici ore al giorno per quindici soldi, una settimana di fatica per pagare un chilo di pasta. Davanti alla fornace c’era una sarta, che mi diceva sempre: “Voi vi dovete sposare quella bella giovane, quella che chiamano ‘a passera. Andate alla messa delle undici, non vi potete sbagliare, è la più bella”.
Lei: Ero bella, sì; nessuna aveva la mia carnagione, i miei capelli. A casa mia arrivavano ambasciate di uomini che avevano un impiego, pure un maresciallo mi chiese in moglie. Ma pure a me, la comare sarta mi diceva sempre: “Vedete quel giovane? E’ lui che vi dovete sposare”.
Lui: Andai alla messa delle undici, la guardavo di lontano e il cuore cominciò a battere, a battere. Il giorno dopo l’aspettai alla fontana e quando scese a prendere l’acqua le chiesi se mi voleva sposare.
Lei mi guardò: “Non è bello che mi prendi in giro e poi ne sposi un’altra”. “No, ti prometto che ti sposo”. Mio padre non voleva, diceva: “Loro sono coloni, noi proprietari”. “Ma che proprietari… Non vedete che la terra che abbiamo non serve a niente, che non riusciamo neanche a camparci? Se mi date il consenso, bene, altrimenti me la sposo lo stesso, che sono maggiorenne”.
Lei: Ci sposammo che era novembre. Andammo a piedi prima in municipio e poi in chiesa. A casa ci fu una festa, con pane duro, capicollo, pecorino e vino nuovo frizzante. Suo fratello, ch’era tornato dall’America con un sacco di soldi, ci diede cento lire; altre cento mio compare e venti un cugino. Troppo pochi per pagare i debiti. Lui ne aveva fatti tanti, più di mille e duecento lire per comprarmi l’oro, l’anello, la collana e gli orecchini e l’abito nero da cerimonia; quello bianco me l’aveva comprato mio padre. Mio suocero se ne andò a stare con una figlia e ci lasciò la casa. Dentro con c’era niente. Il giorno dopo le nozze andai a cercare due mattoni, un po’ di legna e mi prestai la pentola dalla cognata per bollire un po’ di pasta.
Lui: Cambiai lavoro, perché il padrone non mi voleva dare neppure una lira in più e non mi voleva mettere le marche. Lei faceva economia, mangiava pane e olive, raccoglieva i soldi e li nascondeva in un fazzoletto. Un giorno comprai un bel pesce di prima qualità per cinque soldi. Iniziò a borbottare: “Che l’hai preso a fare, l’hai pagato troppo. Restituiscilo e fatti tornare i soldi. Digli che sono incinta, che l’odore del pesce mi rivolta lo stomaco”.
Lei: Pagammo i debiti e si comprò pure qualche camicia, che, quando ci sposammo io avevo portato un baule di biancheria, ma lui aveva solo il vestito che aveva addosso. Ma quando nacque mio figlio – un colosso di quattro chili – ebbi la febbre per quaranta giorni, deliravo, mi pareva che mai avrei rimesso piede a terra. Il medico si prese cinque lire e i debiti ricominciarono. Ma a mio figlio non doveva mancare niente. Ogni settimana scendevo alla bottega a comprargli i biscotti e la bottegaia mi diceva: “Li compra solo la baronessa per la figlia”.
Lui: Poi nacque la bambina. Quant’era bella, bianca e rosea, con gli occhi grandi. Cresceva a vista d’occhio e più cresceva e più si faceva bella.
Lei: Ma una mattina da rosa che era si fece quasi nera. Il medico ci mandò in città da uno specialista, poi da un altro. Allargavano le braccia, ordinavano medicine. Ci volevano tanti soldi.
Lui: Mi prese la smania di andare in America. Mi prestai duemila lire e partii. Ma le frontiere erano chiuse e imbarcarsi su un piroscafo per l’America non era facile. Arrivai in Francia, lavoravo qui e là come potevo e cercai di mandare qualche soldo a casa. Andai a lavorare in Belgio, nelle miniere, poi in Spagna e in Portogallo e di nuovo in Francia e poi in Olanda. Finalmente partii. Alcuni amici marinai mi nascosero nella stiva del piroscafo che trasportava carbone e lì rimasi acquattato quaranta giorni. Mi portavano da mangiare di nascosto. Quando sbarcammo e respirai di nuovo aria, mi sentii subito male, svenni.
Lei: Avevo il cuore nero e lavoravo a più non posso. Di giorno raccoglievo le foglie dei gelsi, perché qui una volta si allevavano i bachi da seta: mettevo seduta a terra la bambina e dicevo al figlio di giocarle, mentre salivo sugli alberi. Di notte lavoravo coperte all’uncinetto, coperte da dote, ma mi pagavano poco, due pugni di fave, di fagioli. D’inverno lavoravo a mezzo letto, per tenere almeno le gambe al caldo; d’estate, fuori la porta, alla luce della luna, per non consumare il lume. Ogni settimana portavo la bambina dal medico, più di dieci chilometri a piedi. Ma a poco a poco cominciai a pagare i suoi debiti.
Lui: Avevo impiegato sedici mesi ad arrivare in America, ma non era finita. Ero entrato illegalmente, non avevo documenti validi, la polizia poteva riprendermi e rispedirmi indietro.
Lei: Morì la bambina, Dio l’abbia in gloria, e il figlio cresceva grande e grosso. Lo facevo mangiare. Preparavo la tavola e mi sedevo con lui, con un coltello vicino e con quello lo minacciavo di mangiare. C’era chi mi prendeva in giro: “V’ha lasciata sola vostro marito, ha trovato un’altra femmina”. Io tiravo per la mia strada, pensavo: le altre sono le altre, io sono sua moglie e da me tornerà.
Lui: Andai a vivere da mia sorella, pagavo il letto e il mangiare a mio cognato; lavoravo come potevo.
Lei: Ero rimasta sola col bambino. Attaccata alla nostra casa, da un lato c’era la casa di due suoi fratelli e, dall’altro, quella dei suoi cugini. Una cognata, mentre ero a lavorare in campagna, fece rubare la mia cassa di biancheria e il mio oro di nozze. La portarono in galera, ma la scagionai, perché non era cattiva e l’aveva fatto per miseria. La cugina, ogni mezzogiorno, di nascosto dal marito e dai figli, veniva a lasciarmi sulla tavola un piatto caldo.
Lui: Ebbi una lite con un tizio: mi offese, lo presi a botte, mi denunciò. Andai via da mia sorella, cambiai cognome. La polizia mi cercava, continuavo a scappare di qua e di là. Non avevo un lavoro fisso, certe volte non avevo niente da mangiare. Avevo paura e non le scrissi più.
Lei: Ormai il figlio andava a scuola in città con la sua bicicletta e tornava la sera. Una sera tornò a casa pallido, lui che spandeva salute. “Che hai, che ti è successo?” “Niente, ma’, che mi vedi”. “Qualcosa hai”. “Un mio compagno è venuto a scuola col vocabolario, un libro grande con tutti i nomi”. “E tu vuoi questo libro?”. Lui non rispondeva, si vergognava di dirmi che costava due lire e mezzo, ma il libro lo voleva. Ho venduto la mia collana e lo comprò.
Lui: Non voglio ricordare. Ero perso, in un altro mondo, senza padre, senza moglie, senza figli. Scappavo. Non so neppure io come rimasi vivo.
Lei: Scoppiò un’altra guerra, il figlio venne chiamato soldato. Restai sola. Quando pure da noi cominciarono i bombardamenti, tutti i parenti si rifugiarono chi da una parte chi dall’altra. Mi presi il baule della biancheria e salii verso la collina dove si erano rifugiati un suo fratello con la moglie che poi non era neppure sua moglie e certe volte pareva uscita dall’inferno per quant’era cattiva. Di notte dormivo con loro e di giorno scendevo a casa dove c’era la capra e tante cose da fare. Una sera quella strega mi disse che non voleva che venisse sua sorella perché c’era poco pane e di pane ce n’era, invece, in abbondanza. Passai la notte a piangere, pensavo: “Se dice questo di sua sorella, figuriamoci di me che sono un’estranea”. E la sera dopo me ne rimasi a casa mia.
Lui: La guerra fu una manna per me. La polizia non mi cercava più come immigrato clandestino, ricominciai a vivere alla luce del sole.
Lei: Una mattina di settembre il mare si riempì di navi. Sbarcarono gli americani, bianchi e neri, inglesi e canadesi. Portarono ogni ben di Dio: scatolette di carne, latte in polvere, pasta. Cominciarono ad arrivare i poveretti di Cassino, i soldati scappati dal Nord. Il figlio non tornò, lo piansi morto.
Lui: Trovai lavoro in una fabbrica di materiale bellico, mi davano meno degli altri operai, ma era lo stesso una buona paga e ricominciai a togliermi i debiti.
Lei: Come Dio volle, la guerra finì davvero. I parenti tornarono tutti nelle loro case, pure quelli che erano andati soldati tornarono vivi, sia lodato Dio. Arrivò una lettera del figlio, che erano quasi due anni che non ne sapevo niente. L’otto settembre dalla caserma di Roma era scappato a Nord, era stato con i partigiani, stava bene, sarebbe tornato presto, diceva. Poi arrivò pure un’altra lettera: erano più di venti anni che non ne sapevo niente, mi si annebbiarono gli occhi, non vedevo che c’era scritto.
Lui: Arrivò anche la sua lettera. Avevo un figlio grande, quasi fidanzato. Bambino me l’ero mai scordato e uomo non riuscivo a immaginarmelo.
Lei: Ci vollero altri sei anni per rivederci. Tutto al paese stava cambiando. Arrivò la luce anche da noi e la sera si poteva lavorare con la lampadina che era un piacere. Portarono pure l’acqua. Per cinquanta anni ero andata a prenderla alla fontana e a lavare nei torrenti, ora si poteva lavare stando a casa.
Lui: Guadagnavo bene. Prima di tornare, volevo pagare tutti i debiti e portare pure qualche soldo. Andavo a scuola serale per imparare l’americano, volevo prendere la cittadinanza.
Lei: Quando scese dal piroscafo, mi prese un colpo al cuore; non aveva più i capelli neri e le rughe gli circondavano gli occhi. Anche i miei capelli ingrigivano e la carne alle braccia pendeva inflaccidita. Il figlio lo abbracciò: “Finalmente ti conosco”.
Lui: Prendemmo un treno che sembrava non arrivare più. Era autunno e il frantoio era in funzione. Mi venne voglia di un biscotto di pane caldo, condito con olio, sale e pepe.
Lei: Una vita era passata dall’ultima nostra notte di nozze. Quasi mi spaventai a non essere più sola nel mio letto. Mi vergognai a spogliarmi, come la prima volta. Era mio marito, era un estraneo, era mio marito.
Lui: Al paese non c’era lavoro per me. In America, se uno ne perdevo, due ne trovavo. Adesso che era cittadino, lei poteva venire con me. Volevo far venire pure il figlio, ma lui diceva che il lavoro ce l’aveva, e sicuro, e voleva sposarsi e vivere dov’era cresciuto.
Lei: Per ventisei anni ero rimasta senza marito. Dovetti lasciare mio figlio e mia madre, bianca ormai di capelli, magra di vecchiaia. Il piroscafo era lento, mi rivoltava lo stomaco vedere sempre cielo e mare, vomitavo ma continuavo a mangiare quello che ci portavano, che era un peccato sprecare quella grazia di Dio: non avevo mai visto tavole così.
Lui: Andammo ad abitare vicino ai miei parenti, c’erano pure tanti compari e comari. Non ci si poteva lamentare, la compagnia non mancava.
Lei: Lì parlavano come noi, non c’era bisogno di sapere l’americano. Trovai lavoro alla lavanderia dell’ospedale. Mi piaceva guadagnare.
Lui: Tornai in fabbrica. Mi sentivo sempre male, alla testa, allo stomaco. Ebbi due operazioni in poco tempo. Mi aprirono lo stomaco, non trovarono niente, richiusero.
Lei: Uscivo presto la mattina, c’era la neve, non l’avevo mai vista. Per risparmiare i soldi del pullman me ne andavo a piedi, due chilometri all’andata, due al ritorno, con la paura di cadere sul ghiaccio. Gli lasciavo tutto cucinato e mi raccomandavo alla comare che andasse a vedere se aveva bisogno di qualche cosa.
Lui: Trovai lavoro come giardiniere, era un lavoro leggero, mi piaceva. Frequentavo le case dei ricchi, case grandi, col garage, e due, tre macchine, una per il padrone, una per la moglie e una per i figli.
Lei: I suoi padroni mi tenevano in palmo di mano. La domenica cucinavo per loro grandi pentoloni di ragù, carne e polpette grandi come uova, fritte nell’olio bollente e poi buttate nel sugo. Loro mangiavano scatolette e roba comprata, le mogli non cucinavano, la nostra cucina gli piaceva. Erano contenti, pagavano bene.
Lui: Mi trattavano bene, si fidavano. Sceglievo io i fiori da piantare e dove piantarli e quali disegni formare nelle aiuole e dove far crescere i recinti d’erbe. A casa niente ci mancava, avevamo la luce e l’acqua, la cucina col forno e la televisione. Quand’ero malato, passavo la giornata cambiando canale.
Lei: Litigavamo perché lui spendeva e io risparmiavo ed ero tirata sul mangiare e nascondevo i dollari nel materasso. Solo i dollari mi piacevano dell’America, la gente no. I figli se ne andavano a vivere fuori casa e quando stavano con i genitori pagavano il mangiare e il dormire, le ragazze andavano a ballare la sera. Volevo tornare al mio paese.
Lui: Io stavo bene in America, l’America m’aveva tolto le pezze dal sedere. Di mio figlio mi bastava sapere che stava bene, l’avevo rivisto che aveva quasi trenta anni, era un uomo fatto, non avevamo molto da dirci.
Lei: Partimmo subito dopo le elezioni, io non ero cittadina, ma lui sì e votò per Kennedy. Quando arrivammo al porto di Napoli, sulla banchina c’erano il figlio, la nuora e la nipote: portava il nome di nostra figlia, mi sembrò di rivederla.
Lui: Il figlio mi prese da parte: “La nonna è in agonia, dobbiamo tornare al paese col primo treno”.
Lei: Salimmo lungo la fiumara ch’era ancora notte. Tutto era uguale, fuori: il pergolato, il gallinaio, i colombi, l’albero di more bianche. Mia madre chiamò due, tre volte mentre entravo; le mie sorelle scoppiarono a piangere: mia madre era morta. Mi raccontarono, dopo, che diceva sempre: “Signore, fatemi la grazia di rivederla e quando metterà piede sullo scalino della porta fatemi morire in pace”. E così mi vestii di nero lo stesso giorno che tornai al paese.
Pubblicato su Zoomsud, domenica 13 gennaio, Giornata dei Migranti http://www.zoomsud.it/commenti/45883-calabria-sinonimo-di-emigrazione.html
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